L’Arte della voce in psicoterapia: Il suono oltre la parola

di Valeria Bassolino

da Psicologinews Scientific

L’Arte della voce in psicoterapia: Il suono oltre la parola

Gli studi sulla voce, osservati da varie angolazioni e secondo molteplici punti di vista e dalle relative multiformi applicazioni, mostrano come voce, persona e ambiente siano legati attraverso una fitta trama di reciproche interconnessioni. Psicoterapia della Gestalt, Analisi Transazionale, Bionergetica, ma anche l’arte, espressa nelle forme del suono e del Teatro di ricerca, ci insegnano che, così come accade per la comunicazione attraverso il linguaggio non verbale, l’analisi delle incursioni sonore vocali consente di accedere a quella parte della realtà psichica della Persona che non riesce ad essere espressa tramite il linguaggio codificato.

Se l’espressività del corpo comunica un pensiero che scavalca le difese del linguaggio, anche la voce definisce una modalità comunicativa che va al di là del valore semantico della parola. A questo proposito, numerosi autori hanno mostrato come, attraverso l’analisi dei timbri sonori e i cambiamenti vocali nel Qui ed Ora della terapia, sia possibile ampliare le risorse terapeutiche, sia di tipo diagnostico che relazionale.

“…Non parlerei forse di linguaggio informale? Di valori cromatici e tattili, dei sapori e degli umori, della pelle e dei baci, dell’ombra e del profumo delle parole? Elencherei parole tonde e gialle, lunghe e calde, voluttuose e lisce, oppure parole polverose e bigie, sfilacciate e verdi, parole a pallini e salate, parole massicce, fredde, nerastre, indigeste, angosciose”.

Fosco Maraini mostra come nell’evocazione e nel suono della parola vi sia un senso intimo e profondo del linguaggio. Tutto sommato, riflettendo sulla voce e la psicoterapia ci si accosta necessariamente agli aspetti metasemantici della comunicazione, espressi attraverso il corpo, il registro vocale e, in generale, nella comunicazione non verbale.

Studi di diversa matrice hanno individuato nella voce una delle modalità più arcaiche di comunicazione madrefiglio, risalente addirittura alla condizione di vita intrauterina. Il primo gesto del venire al Mondo è suono: respiro e vocalità. La voce, intrinseca al respirare, è il nostro più immediato e necessario scambio con il mondo, al punto che ogni minaccia alla sua funzionalità produce angoscia di soffocamento.

E il respiro, presupposto del nostro esistere, è la materia della voce, materia cui le corde vocali danno forma. Anemos è la parola greca che significa «soffio», «vento» e che derivandola dal latino traduciamo con “Anima”. La voce, in quanto soffio vitale primordiale, è in questo senso espressione profonda dell’Anima, incarnata nel corpo fisico. Queste particolarità della voce, fisiologiche prima ancora che psicologiche, la collegano così intimamente alla presenza della Persona che risvegliarne la voce evidentemente contribuisce a risvegliarne la presenza.

Considerare adeguatamente gli aspetti legati alla voce nel contesto della terapia vuol dire, in primo luogo, porre attenzione alla voce del paziente. Maria Jutasi Coleman, Psicoterapeuta della Gestalt, mostra esaustivamente come poter adoperare l’analisi dello spettro vocale dei pazienti sia a scopo diagnostico che metodologico.

La voce, che va nel mondo ed è sentita dagli altri, nel suo stesso prodursi è sentita anche da noi stessi per due vie: dall’interno del corpo, attraverso le trombe di Eustachio che collegano direttamente la faringe alla cassa timpanica; e dall’esterno, con un piccolo ma significativo ritardo, nel suo riflettersi sugli oggetti attorno a noi. Sempre sentiamo la nostra voce risuonare dentro e fuori di noi, nel momento stesso in cui la emettiamo . E il produrla è immediatamente controllato e modificato alla luce del sentirla. L’effetto della voce sugli altri è mediato e successivo. In questo processo, intervengono canali emotivi, sensoriali e cognitivi a flitrare il respiro e l’emissione vocale.

In ‘arrendersi al corpo’, Alexander Lowen racconta l’esperienza della sua prima seduta di terapia con Reich: “Stavo su un lettino con indosso un paio di calzoncini corti, perché Reich potesse osservare il mio respiro. Lui era seduto davanti al lettino. Mi disse semplicemente di respirare, cosa che feci in modo normale, mentre lui studiava il mio corpo. Dopo circa dieci o quindici minuti, disse: ‘Lowen, non stai respirando’. Replicai che respiravo. ‘Ma’, disse lui, ‘il tuo torace non si muove’. Era vero. Mi chiese di mettere una mano sul suo torace per sentire il movimento. Sentii che il suo torace saliva e scendeva e decisi di muovere il mio torace ad ogni respiro. Lo feci per un certo tempo, respirando con la bocca e sentendomi molto rilassato. Reich allora mi chiese di spalancare gli occhi e, quando lo feci, emisi un sonoro e prolungato grido. Mi sentivo gridare, ma non c’era nessuna sensazione collegata. Proveniva da me, ma io non avevo nessun collegamento con quel suono. Reich mi chiese di smettere di gridare perché le finestre della stanza erano aperte sulla strada. Ripresi a respirare come prima, come se non fosse accaduto nulla. Ero sorpreso del grido, ma non ne ero toccato emotivamente. Allora Reich mi chiese di ripetere l’azione di spalancare gli occhi, e ancora una volta g r i d a i senza nessun collegamento emotivo con il fatto. […] Poco tempo dopo, la terapia venne interrotta per le vacanze estive di Reich. Quando riprendemmo in autunno, tornammo alla respirazione spontanea. Nel corso di questo nuovo anno di terapia, ebbero luogo diversi eventi importanti. In uno di questi rivissi un’esperienza infantile che spiegò le grida della mia prima seduta. Mentre stavo sul lettino a respirare, ebbi l ’impressione che avrei visto un’immagine sul soffitto. Nel corso di alcune sedute l’impressione divenne più forte. Poi l’immagine apparve. Vidi il volto di mia madre. Mi guardava con occhi molto arrabbiati. Sentii che ero un bambino di circa nove mesi, stavo nella carrozzina fuori della porta di casa e gridavo per chiamare la mamma. Lei doveva essere impegnata in qualche attività importante, perché quando uscì mi guardò con tanta rabbia da paralizzarmi di terrore. Le grida che allora non ero riuscito ad emettere dovevano esplodere nella mia prima seduta terapeutica, trentadue anni dopo”.

La voce comunica le modalità della presenza, in un certo senso, allora, la voce dichiara la Persona al mondo. Quindi, nella voce del terapeuta deve risuonare una presenza che promuove la presenza del paziente, che soprattutto la legittima, che la riconosce come centro di valore e grazie a questo l e consente finalmente di fare esperienza nuova, e di crescere, di potenziarsi, di articolarsi. La voce esprime con fedeltà la presenza, in ogni sfumatura, così come rispecchia le più profonde lesioni dell’identità personale. Nelle parole di Giorgio Moschetti: “La voce, precaria uscita nel mondo, effimera traccia che subito svanisce, è anche dunque totale apertura all’intimità. Per il breve tempo del suono vocale, la presenza è totalmente esposta all’altro. Nella patologia nulla come la voce ci palesa immediatamente la radicale fragilità, incertezza della presenza. Talvolta l’essere al mondo è così ritirato che la voce, troppo impaurita, scompare. Proprio guardandone il contrarsi nella patologia, riusciamo a capire il significato e la centralità della voce per la Persona e per la sua presenza nel mondo”.

La voce, dunque, testimonia della presenza e delle sue intenzioni: ma lo fa con assoluta evidenza quando “la presenza abbandona la protezione del significato delle parole e si consegna al puro suono”. La parola non è mai soltanto suono, rimanda sempre al concetto, all’oggetto, al contenuto particolare: nelle nostre intenzioni quotidiane la voce è strumento per quel contenuto e solo secondariamente trasmette anche il modo della presenza.

Ma come questo può realizzarsi nell’ambito del contesto procedurale della terapia? Carlo Moiso e Michele Novellino riportano le indicazioni di Berne su come ascoltare ed osservare i pazienti per individuare alcuni segni di copione: “Il terapeuta deve essere in condizioni fisiche buone e non essere sotto l’influenza di fattori che possano alterare la sua efficienza; deve liberare la sua mente da preoccupazioni esterne; deve mettere da parte i pregiudizi Genitoriali, compreso il ‘bisogno’ di aiutare; deve mettere da parte tutti i preconcetti sui pazienti in generale e su quel paziente in particolare; non deve farsi distrarre dal paziente con interrogativi o altre richieste di natura psicologica che ostacolino il processo terapeutico; l’Adulto ascolta il contenuto di ciò che viene detto, mentre il Piccolo Professore il modo in cui viene detto; quando ci si sente stanchi, si smette di ascoltare e ci si mette a guardare o a parlare”.

Berne individua chiaramente alcuni punti circa il ‘che cosa’ bisogna ascoltare:
a.I suoni: colpi di tosse, sbadigli, grugniti, sospiri, risate. Per esempio, secondo Berne tossire spesso equivale a una convinzione di copione del tipo: “Nessuno mi ama”.
b.Il tono: il modo di parlare o di accentare (per esempio un tonoaffettato) è importante rispetto al copione.
c. Le voci: ogni paziente ha tre voci: quella del Genitore, quella dell’Adulto e quella del Bambino. Il paziente ne può utilizzare una o due anche per un lungo periodo di tempo, ma prima o poi la cambia. Per Berne, una persona fa almeno un cambiamento di voce ogni 15-20 minuti. Il cambiamento può essere rapidissimo e avvenire nell’ambito di una parola, di una frase breve.

Anche relativamente al minicopione Moiso e Novellino mostrano che l’osservazione diretta di alcune variabili relative alla voce del paziente può aiutare a identificarne i comportamenti di spinta. Tale individuazione è basata sul riconoscimento di sette fattori: “due interni e quindi identificabili solo dalla persona che in quel momento sta vivendo la sua spinta, che sono le sensazioni fisiche e le svalutazioni; cinque osservabili: parole, tono e ritmo della voce, gesti, postura, espressione facciale”.

Molti elementi utili possono essere valutati anche nei lavori di impostazione gestaltica. Per esempio, nel mettere in atto una tecnica espressiva è necessario che il terapeuta ponga molta attenzione alla voce che il paziente utilizza per esprimere una determinata emozione. Egli può anche, se lo ritiene utile, invitare la persona ad utilizzare un timbro e un registro vocale che sia congruo all’emozione sentita ed espressa, eventualmente anche suggerendone esplicitamente la modalità.
Perls, Hefferline e Goodmann dichiarano: “Non è importante che colui che verbalizza parla, ma come parla. […] La mancanza del contatto con l’io è spesso spettacolarmente osservabile nella divisione del corpo in una bocca che emette suoni con movimenti rigidi e rapidi delle labbra e della lingua e con un vocalismo privo di risonanza, e nel resto del corpo tenuto a freno e non impegnato; oppure, a volte, gli occhi e alcuni gesti dei polsi o dei gomiti si uniscono alla bocca che verbalizza; o ancora, talvolta, un occhio solo, mentre l’altro rimane vacuo e vagante, o disapprova il parlare; oppure il viso viene diviso in due parti. Le parole vengono fuori a sprazzi, non coordinate alla respirazione, e il tono è monotono. […] La verità del suono e la ricchezza degli armonici sono la potenzialità della risonanza nei gridi primitivi quando l’occasione si presenta. Colui che verbalizza raramente sente la propria voce, e quando l’ascolta rimane sorpreso; ma il poeta presta la sua attenzione ai mormorii e ai sussurrii sublocali; li rende udibili, critica il suono e lo ripete”.

La giusta attenzione alla voce del terapeuta stesso può fornire molte indicazioni utili al lavoro terapeutico. Anche il terapeuta dovrà utilizzare un registro sonoro che sia adeguato al lavoro che sta svolgendo. La modalità vocale ed espressiva cambia nell’operare una confrontazione o in una fase terapeutica in cui è necessario contenimento o accoglienza.

Allo stesso modo, bisogna riflettere circa possibilità di gestire gli aspetti controtransferali della relazione. Ciò può voler dire che osservando il tipo di vocalità utilizzata nel Qui-ed-Ora della terapia, ed eventualmente i relativi cambiamenti, è possibile comprendere l’emozione presente nella relazione. Un terapeuta consapevole che quando prova, per esempio, paura o rabbia, tende ad utilizzare una voce morbida e flebile, da BA, ha a disposizione un utile strumento per monitorare certi aspetti della relazione, gestire le proprie emozioni e lavorare sulla relazione tranfert–controtransfert. In questo senso, può essere utile guardare a questo e trarre le dovute considerazioni, sia relative al vissuto individuale (che cosa sto provando? Perché provo questa emozione? Cosa c’è di mio in quello che il paziente sta dicendo?) che relazionale (come mai in questo momento della terapia con questa persona faccio così? È utile al paziente? Cosa serve ora?).

Relativamente alla metodologia, è possibile utilizzare delle tecniche rivolte al lavoro attraverso la voce. Se si pensa che migliorare il suo registro vocale possa aiutare la Persona a giungere a certe consapevolezze o a esprimere determinate emozioni, è possibile incoraggiarlo a fare ciò, per esempio, proponendo degli esercizi specifici e lavori mirati.

In relazione alle possibili applicazioni di questi principi nel Qui ed Ora della terapia è possibile riferirsi alle esperienze già effettuate nell’ambito del teatro di ricerca. Attraverso la ricchissima esperienza di ricerca teatrale, diventa possibile integrare gli aspetti puramente espressivi e metasemantici del lavoro sulla voce, a forme terapeutiche più propriamente elaborative.

Antonin Artaud, ideatore del “Teatro della Crudeltà”, rappresenta il tramite fra le prime esperienze sonore condotte dalle grandi avanguardie e la loro ripresa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Con Artaud non è più solo la voce che sperimenta in maniera grottesca e delirante, ma anche il corpo. Jerzy Grotosky e Walter Orioli propongono esercizi ed esperienze che rivelano una doppia finalità: da una parte il miglioramento dello spettro vocale e dall’altra lo sviluppo della consapevolezza individuale e della relativa capacità di esprimere emozioni in maniera libera. Nelle parole di Perls, Hefferline e Goodmann: “[…] disgustati dai soliti vuoti simbolismi e verbalismi, i filosofi contemporanei del linguaggio hanno stabilito delle norme costrittive del parlare che sono ancora più stereotipate e prive di affetto; e alcuni psicoterapeuti cedono alla disperazione, cercano di evitare completamente di parlare, come se soltanto il silenzio interno e il comportamento non verbale fossero potenzialmente sani . Ma l’opposto del verbalizzare nevrotico è il linguaggio creativo e vario; non è né la semantica scientifica né il silenzio; è la poesia”.

BIBLIOGRAFIA
ARTAUD A., Il Teatro e il suo doppio, Einaudi, 1968
BARBA E., Teatro. Solitudine, Mestiere, rivolta, Ubulibri, Milano, 2000
COLEMAN M. J., “Terapia della voce”,Quaderni di Gestalt, n. 6-7, H.C.C., 1998
GROTOWSKI J., Per un teatro povero, Bulzoni, 1970
LOWEN A., Arrendersi al Corpo, Astrolabio, Roma, 1994
MARAINI F., Gnòsi delle Fànfole, Baldini&Castoldi, Milano, 1994
MOISO C., NOVELLINO M., Stati dell’Io, Astrolabio, Roma, 1982
ORIOLI W., Teatro come Terapia, Macro, 2001
PERLS F., HEFFERLINE R.F., GOODMANN P., Teoria e pretica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, 1997

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