L’Assessment Terapeutico: perché è nuovo attrezzo nella cassetta del giovane psicologo
di Gaia Cassese
Introduzione
La cosa più bella che può accadere nella scelta di cominciare un nuovo corso di studio è imbattersi in una tecnica (o teoria) mai conosciuta prima e restarne totalmente rapiti. È ciò che mi è successo, in modo quasi casuale, con il metodo di Assessment Terapeutico, mentre cercavo di restare a galla tra le mille incertezze sulla valutazione psicodiagnostica ancora non sfruttata appieno in ambito clinico privato, contesto di mio principale interesse professionale.
Lo studio del materiale per il mio lavoro di tesi di Master in Psicodiagnostica clinica e forense mi ha donato molteplici spunti di riflessione particolarmente ricchi, in quanto letti dal punto di vista di una giovane laureata che si approccia per le prime volte alle richieste del mondo del lavoro. In questa prospettiva, trovo che l’intervento breve proposto da Finn porti con sé, specialmente per noi giovani psicologi, moltissime potenzialità lavorative e professionali.
Dalla valutazione tradizionale all’assessment collaborativo
Il metodo di Finn si pone come diretto prosecutore, all’interno di un gran corpus di riflessioni, della necessità di superare la valutazione psicologica e la stessa medicina tradizionale. La valutazione psicologica standard, nonostante i consolidati tentativi di recupero di una consapevolezza della relazione somministratore-paziente, segue ancora, quantomeno nel sentire comune, il concetto di diagnosi come uno stato del paziente, fisso e immutabile (1). Questa concezione porta con sé delle difficoltà che si riversano non solo sul paziente, ma anche sul terapeuta. Possiamo facilmente immaginare l’angoscia insita al processo valutativo che si ripercuote sulle prestazioni e sulle aspettative del paziente nei confronti del percorso che sta andando ad affrontare (2). Mi vengono in mente degli episodi a cui ho assistito durante la mia attività di volontariato presso una comunità terapeutica per tossicodipendenti, dove alcuni utenti erano particolarmente riluttanti alla richiesta di una valutazione psicologica a causa di una storia familiare di patologia psichiatrica, e dal timore della prosecuzione di un potentissimo stigma già molto presente nella loro narrazione, nonché dal vissuto ambivalente di sollievo e timore nel dare un nome immutabile (o un’etichetta?) al loro disagio. Tuttavia, tale fantasma della valutazione pone diverse barriere anche per la stessa conduzione e definizione del piano terapeutico: non è raro incontrare psicologi riluttanti alla somministrazione dei test, intimoriti dall’essere percepiti dagli utenti come giudicanti, o nel timore di incasellare i propri pazienti in categorie diagnostiche, in un momento storico in cui domina il “politically correct” ed il relativismo.
Un movimento in sintonia con il superamento della medicina tradizionale è anche quello che sposta il proprio focus di osservazione dalla necessità di scovare i problemi e i sintomi, a quella ispirata dalla “Psicologia Positiva” e dalle “terapie di terza ondata” di individuare e focalizzare le risorse degli utenti.
L’assessment Terapeutico volge proprio in questa direzione, recuperando in toto il ruolo del contesto nel processo. La finalità dell’intervento, cioè, non è quella di definire una volta per tutte il disagio dell’individuo, quanto di conoscerne le caratteristiche, ovvero di individuare quando il paziente agisce in modo disorganizzato o non funzionale e quando, con quali fattori, agisce in modo più organizzato. Non intendiamo cioè chiuderci in una definizione di malattia che ci allontana dal paziente, quanto capire profondamente le sue emozioni, scorporare i suoi comportamenti e da quali desideri ed esigenze questi siano motivati, o si fanno portavoce. Capire i loro comportamenti e i loro desideri ci avvicina, ci permette in quanto psicologi di trovare le piccole parti di noi stessi presenti in quegli stessi desideri, in quegli aspetti e quegli agiti che ci portano a “metterci nei panni dei nostri pazienti”.
In quest’ottica tutto ciò che accade nel processo di assessment assume un notevole significato: anche un test non valido ci offre informazioni, ad esempio, sui dilemmi legati al cambiamento, o sulle credenze di come gli altri potrebbero reagire agli sconvenienti risultati del test stesso.
Un altro punto su cui vale la pena soffermarsi riguarda le diverse caratteristiche che assume, nei due modelli di valutazione, la relazione tra somministratore e paziente. Quella che caratterizza l’assessment tradizionale è basata su di un utente che subisce un esame testologico: consapevoli dell’influenza del professionista nella rilevazione dei dati, il tentativo è quello di minimizzare tale variabile interferente attraverso la costruzione di un ambiente che, pur mettendo a proprio agio il soggetto, si mantenga piuttosto neutrale e silenzioso. Nella testologia tradizionale, cioè, si dà troppa attenzione ai risultati e troppa poca a come questi siano emersi, nel e dal processo valutativo (Aschieri et. al, 2016).
Nell’assessment collaborativo, invece, il ruolo del testista viene considerato fin dall’inizio come parte integrante del contesto: più che una variabile da controllare, questa consapevolezza viene utilizzata come una risorsa per poter creativamente “giocare” (3) con il paziente. Ne deriva certamente che anche la comunicazione, per l’intera durata degli incontri, farà riferimento alla presenza in prima persona dello psicologo, utilizzando continuamente un “messaggio-io”, ad esempio:< mi ha comunicato, voleva comunicarmi> piuttosto che < i risultati del test rivelano>. I professionisti che utilizzano il metodo di assessment terapeutico fondano l’intervento su un assunto di base fondamentale: i risultati assumono significato solo in quella determinata relazione terapeutica. È chiaro che questa differente concezione della relazione si riversa necessariamente sulle altre caratteristiche della valutazione. Ad esempio, mentre per l’approccio tradizionale la validità dei risultati dipenderà per lo più dalla capacità e bravura del testista nella somministrazione e lettura dei risultati, in quello collaborativo si predilige il vissuto del paziente: è quest’ultimo ad avere la chiave della sua verità, il testista non cercherà spiegazioni “reali” al di fuori di lui.
È inevitabile un cambiamento anche nella comunicazione dei risultati, argomento oggi all’ordine del giorno per quanto riguarda la comunicazione della diagnosi in ambito sanitario (Ricci Bitti, Gremigni, 2016). A partire da questo recentissimo ambito che vede attivamente impegnati moltissimi psicologi ad offrire, nonostante le notevoli resistenze, specialmente in ambito dei servizi territoriali, il proprio contributo in ambiente sanitario, trovo molto interessante questo aspetto del modello. Nella comunicazione della diagnosi (o meglio dei risultati finali), cioè, si passa dalle “sessioni di feedback” della valutazione tradizionale, in cui si cede, in una comunicazione piuttosto unidirezionale, la propria relazione diagnostica con l’accortezza di renderla più fruibile al paziente, alle “sessioni di discussione finale” caratteristiche dell’intervento di Finn. In un modello che predilige il vissuto del paziente, è fondamentale ritagliarsi un incontro di discussione sul percorso tracciato insieme, lasciando anche all’interlocutore la possibilità di esprimere il proprio accordo o, al contrario, di rivederne alcuni aspetti.
Al termine di quanto detto fino ad ora, mi sono posta una domanda: ma a chi serve la valutazione psicologica? Allo psicologo o al paziente? Ed è la risposta a tale quesito a tracciare la principale differenza tra i due metodi affrontati nel paragrafo. La valutazione tradizionale si concentra sull’uso dei test a fini diagnostici, di pianificazione del trattamento, o valutazione e monitoraggio del percorso terapeutico. Essa serve cioè allo psicologo (e solo indirettamente al paziente), quasi ci fosse l’illusione da parte dello specialista di poter scoprire o, quanto meno, di avvicinarsi alla realtà, la verità del paziente sconosciuta ad egli stesso. Mi viene qui da muovere un’ulteriore questione di fondo, ovvero: qual è la funzione dello psicologo? trovare la verità (4), seguendo un mito onnipotente affibbiato alla figura dello psicologo salvifico che, almeno all’inizio della nostra carriera, ammettiamo aleggi molto forte come nostro mandato sociale, o quella di attenerci ed operare sulla realtà portata dal paziente?
Forse il punto sta nel rassegnarci, in quanto giovani psicologi, ad essere solo “fili d’erba in un prato, a non portare il peso del mondo sulle spalle” (5), ad una verità inconoscibile che, in quanto tale, evitiamo di prenderci come delega al primo incontro di consultazione.
Piuttosto che cercare di scoprire la verità assoluta, potremmo “accontentarci” di qualcosa di ancora più grande ed ambizioso: cominciare a tessere, insieme al paziente, le fila di una verità che egli non riesce ancora a dirsi, che per quanto dolorosa è la sua storia, che viene empaticamente e finalmente riconosciuta in terapia. La possibilità di permettere al paziente di verbalizzare ciò che prima non poteva essere verbalizzato è un primo fortissimo senso di empowerment imprescindibile al processo terapeutico. Sento quindi di poter affermare una differenza sostanziale: la valutazione tradizionale serve allo psicologo, l’assessment terapeutico serve al paziente.
L’assessment Terapeutico come risorsa per i pazienti
Nel precedente articolo “l’Assessment Terapeutico o collaborativo come intervento psicologico breve” abbiamo visto che l’efficacia del modello consiste nella filosofia e nei valori che lo ispirano: una profonda fiducia, collaborazione, compassione. Instaurare una relazione terapeutica fin dall’inizio caratterizzata da un tale autentico interesse e non giudizio per la storia del paziente si pone come un estremo punto di forza per il processo di cura. Non a caso, infatti, i principali riscontri positivi dell’intervento si notano ben presto a carico dell’alleanza terapeutica e della motivazione al trattamento (Aschieri et al., 2021), ponendosi quindi come un notevole strumento di aggancio. Tuttavia, vorrei, in questo paragrafo, concentrare la mia attenzione su un ulteriore aspetto fondamentale. Abbiamo infatti più volte detto che l’Assessment Terapeutico si pone come un metodo estremamente flessibile: la bravura dello psicologo nonché la validità del modello consistono anche nell’adattare le fasi e gli incontri al materiale emerso, alle domande poste e alle esigenze delle diverse tipologie di contesti. Avere a disposizione, nelle proprie competenze da psicologo un intervento breve come quello proposto da Finn va nella direzione del rendere la psicologia più inclusiva per una vasta gamma di pazienti.
Questo modello dalla comprovata validità terapeutica, dalla struttura flessibile, e dal carattere incisivo, può essere proposto come vero e proprio intervento psicologico breve per alcuni pazienti, soprattutto per quelle domande “facili” e gli utenti restii a cominciare un percorso terapeutico, proponendo sessioni di follow up di uno o due incontri annui per esplorare come il paziente sta procedendo nelle soluzioni co-costruite e pianificate in seguito all’intervento di assessment.
Il mio pensiero va, infine, a quegli utenti che non possono o non sono disposti a sostenere il costo di un percorso terapeutico: l’assessment può essere adattato creativamente ad ogni esigenza sociale, contestuale ed economica.
L’Assessment Terapeutico come risorsa per gli psicologi
Io non sono mai stata molto creativa, così nel mio percorso formativo, fin da piccola, ho sempre avuto la furbizia (e l’attrazione, verso chi condivide caratteristiche e capacità che non sento mie) di affiancarmi a compagni e colleghi estremamente fantasiosi. I lavori di gruppi erano, in questo modo, spettacolari, e provavo un sentimento di orgoglio, misto ad un pizzico di invidia, per il risultato che non sarebbe mai stato uguale se avessi portato avanti il progetto per conto mio. Ma andava bene anche così, d’altronde un gruppo resta immobile se le risorse dei membri sono tutte uguali, e la ricchezza è limitata se le proposte muovono tutte nella stessa direzione. Così non mi dispiaceva essere riconosciuta, spesso anche con appellativi e battute scherzose, come la mente analitica del team, la “zavorra” che tiene il gruppo ben saldo all’esame di realtà.
Arriva un momento della carriera, però, dove si sente un’estrema mancanza dei progetti di lavoro in gruppo proposti all’università, e devi, da giovane professionista, fare i conti con una serie di performance da portare a termine da sola. È questo il momento che ho sempre temuto, in cui l’aspetto creativo e sognante del lavoro, la possibilità che apre a nuovi significati possibili, inesplorati e mai proposti prima, quella minima distanza necessaria dal mondo del pratico-concreto, avrei dovuto cercarla nel mio bagaglio personale da giovane psicologa.
L’Assessment Terapeutico mi è fin da subito parso una profonda sfida in tal senso, nel momento in cui viene proposta dallo stesso autore come una possibilità per quegli psicologi che “non sono così creativi”, spronando all’ideazione di molteplici modalità e tecniche per comunicare in modo incisivo e significativo con il paziente. La mia riflessione parte proprio da questo movimento interno. Il modello proposto da Finn è un notevole strumento nelle mani dei nuovi psicologi proprio perché sprona lo sviluppo e l’allenamento di tutte quelle caratteristiche desiderabili del terapeuta ideale: creatività, intuitività, intraprendenza ed una certa capacità di trasversalità delle competenze apprese nei diversi contesti e situazioni.
Apprendere come condurre una buona sessione di assessment collaborativo pone immediatamente le basi alla costruzione di una vincente relazione terapeutica, caratterizzata da empatia, capacità di decentramento cognitivo a favore del vissuto del paziente, fiducia e compassione per il vissuto dell’altro, nonché il metterci completamente in gioco nella relazione, nella consapevolezza di essere attori attivi e partecipativi del processo di lavoro. Inoltre, non dimentichiamo che il metodo racchiude in sé tecniche comuni e trasversali a diversi modelli psicologici, spronandoci ad un continuo studio e formazione che ci avvicina ad una molteplicità di paradigmi teorici differenti.
Eppure, una grandissima opportunità offerta dalla formazione nell’assessment terapeutico l’ho individuata nella possibilità di avere, come strumento nella cassetta degli attrezzi del neopsicologo, un intervento psicologico breve autonomo ed efficace. Molto spesso nel mio percorso universitario ho sentito non poca confusione da parte degli studenti, verso cosa potesse nel concreto realizzare la figura dello psicologo. È in questo contesto che l’assessment terapeutico mi sembra l’opportunità di concretizzare una proposta competente in ambito clinico privato, ponendoci come una figura professionale ancora poco diffusa.
Ricordiamoci inoltre che esso si pone come intervento da proporre ad un pubblico che non vuole o non può permettersi un percorso terapeutico e che quindi, molto probabilmente, non approderebbe alla figura dello psicoterapeuta. In questo modo lo psicologo potrebbe presentarsi, già in ambito privato, non solo, come spesso avviene, quale intermediario tra l’utente e lo psicoterapeuta, quanto come una figura autonoma, accessibile, capace di un set di interventi dalla portata terapeutica per uno specifico target di pazienti.
Abbiamo visto di come Finn spiega di ricevere molto spesso richieste da colleghi che si trovano in una situazione di impasse nel percorso con i propri pazienti: in questi casi, l’assessment collaborativo viene condotto come intervento a sostegno dello sviluppo della relazione terapeutica, proponendoci come veri e propri consulenti per i nostri colleghi. La trovo un’opportunità non solo per offrirsi come figura professionale insolita ed innovativa, ma anche per promuovere una rete di studio, aiuto e supervisione reciproca con altri professionisti del territorio. Infine, imprescindibile ruolo dello psicologo specializzato in assessment terapeutico, è farsi canale di sensibilizzazione per il reale e corretto uso dei test: non verità imprescindibile, non male assoluto, quanto mezzo per “conoscere attraverso” la complessità del paziente.
Note
(1) Questa è la ancora viva concezione di diagnosi in cui mi sono imbattuta interfacciandomi con i colleghi. A questo proposito ricordo l’esperienza di un giovane tirocinante che mi raccontava la sensazione di impotenza nel vedere un bambino “fallire” ai test della Wisch IV, sensazione che lo ha portato alla decisione di non voler lavorare, in futuro, nell’ambito della valutazione psicologica. Chiaramente, chi lavora in questo campo ha una diversa consapevolezza circa l’utilizzo dei test in contesto clinico. Tuttavia, l’intento del presente articolo è quello di rivolgersi ad un pubblico di giovani neolaureati, o a professionisti incuriositi dalle nuove tecniche in ambito psicodiagnostico.
(2) Seguendo la valutazione psicologica di un paziente molto sensibile al giudizio dell’altro, mi accorgevo delle forti quote di ansia che accompagnavano il suo processo testologico. che arrivavano ad aumentare la diffidenza nei confronti del terapeuta.
(3) Faccio qui riferimento alla capacità, da parte dello psicologo, di utilizzare le informazioni provenienti dal processo per poter riproporre in vivo, nella relazione, gli schemi strettamente legata alla domanda centrale del paziente.
(4) Faccio un richiamo al punto “O” inconoscibile della teoria del pensiero Bioniana.
(5) Citazione dalla serie tv “Strappare lungo i bordi” di Zero Calcare (2021).
Bibliografia
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