IMPARARE COME UN BAMBINO? NEUROPLASTICITÀ E SOSTANZE PSICHEDELICHE
Richard A. Friedman, che insegna Psichiatria Clinica al Weill Cornell Medical College, ha recentemente approfondito il tema della neuroplasticità in relazione all’utilizzo di sostanze psichedeliche. È uno degli argomenti maggiormente trattati del momento: l’utilizzo terapeutico di queste sostanze sta ottenendo una grande attenzione sia presso i terapeuti sia presso i pazienti e le ricerche in questo campo sono in aumento esponenziale.
Il concetto di neuroplasticità ci aiuta a comprendere perché i bambini imparano facilmente ogni genere di cose: come nuotare, sciare o parlare una nuova lingua: tutti noi abbiamo sperimentato, nella nostra infanzia, tra il primo e i quattro anni di età, una neuroplasticità accentuata, durante i periodi definiti sensibili dello sviluppo cerebrale. È il naturale periodo della nostra vita in cui il cervello risponde in modo unico agli input dell’ambiente circostante.
Ma per sfruttare questo eccezionale e fertile stato neuroplastico – lo sanno bene i ricercatori nel campo della deprivazione sensoriale sperimentata da bambini istituzionalizzati – occorrono alcune condizioni: l’ambiente deve infatti fornire stimoli sufficienti e il bambino deve interagire attivamente con il contesto. Non è un processo passivo.
Chi fa clinica sa molto bene che una persona che è stata trascurata, maltrattata o sottostimolata durante i primi anni di vita, ha un’alta probabilità di riceverne effetti negativi e duraturi più consistenti che se le stesse circostanze le fossero accadute più tardi nella vita, cioè fuori dai cosiddetti periodi sensibili dello sviluppo cerebrale.
E veniamo agli psichedelici, che sono in grado di indurre in poche ore uno stato di neuroplasticità in soggetti adulti. Uno stato neuroplastico così ottenuto può migliorare le nostre capacità di apprendimento, ma può anche aumentare l’esperienza o la memoria di eventi traumatici cui andiamo con la mente durante l’assunzione della sostanza.
Le psicosi indotte da droghe psichedeliche sono state ampiamente descritte in letteratura da diversi decenni. Casi di utilizzo di psilocibina, cui fa riferimento Friedman, in cui il soggetto era tornato con la mente ad esperienze negative e violente della propria infanzia, sono esitati in ricordi particolarmente vividi e acutamente dolorosi nelle settimane dopo l’assunzione, precipitando il paziente in una grave depressione.
Friedman sostiene che queste esperienze potrebbero essere molto diverse, e addirittura positive, con la guida di un terapeuta durante l’esperienza psichedelica, che possa essere di aiuto per rivalutare i ricordi e renderli meno tossici e devastanti.
Ovviamente, per i ricercatori e i clinici il campo di ricerca è difficile da concepire e organizzare: si dovrebbero creare dei gruppi di persone che utilizzano microdosi di sostanze e persone che non le utilizzano, fare un lungo studio in termini di tempo e valutare se alla fine i due gruppi differiscono in termini di sviluppo di disturbi post traumatici. È evidente che uno studio simile non potrebbe agire sulle circostanze e sull’intensità delle esperienze portate nella vita di ognuno dal caso: sono troppe le variabili non controllabili da parte dei ricercatori.
Naturalmente ci sono infiniti argomenti da approfondire nel campo, di natura scientifica ed etica, ma è interessante riflettere su questo fenomeno così recentemente oggetto di tanta attenzione e tenere conto del fatto che indurre artificialmente uno stato di neuroplasticità può avere esiti inattesi.
Infatti, tutti noi perdiamo progressivamente la neuroplasticità con il passare degli anni. È vero che possiamo continuare a imparare, ma occorre uno sforzo maggiore rispetto a quando eravamo più giovani. All’età di 70 anni, il nostro ippocampo contiene neuroni molto meno connessi tra loro rispetto a quando avevamo 25 anni. Perdere la neuroplasticità con l’avanzare dell’età, tuttavia, è una situazione complessivamente vantaggiosa per il cervello. Ci consente infatti di conservare la nostra esperienza: a spese di una maggiore fluidità cognitiva, è vero, ma in questo modo acquisiamo e consolidiamo la conoscenza delle cose.
Forse possiamo concordare che, per un adulto, essere in grado di utilizzare tutte le conoscenze accumulate è più importante e utile rispetto ad apprendere una nuova abilità da zero. Dobbiamo anche ricordare che la nostra identità di persone è codificata nella nostra architettura neurale: ci conviene averne cura, è il fondamento della nostra esistenza personale e sociale. Di conseguenza, alterare e rendere artificialmente più sensibile e ricettivo il cervello è una opzione da valutare molto attentamente.
Secondo Friedman, la ricerca ha senso nella direzione di un utilizzo guidato degli psichedelici nel trattamento di depressione e ansia: probabilmente vedremo grandi e rapidi cambiamenti nei prossimi anni, a beneficio delle persone che soffrono di queste condizioni. Un utilizzo invece, per così dire, “migliorativo” di queste sostanze per le nostre prestazioni mentali apparirebbe più materia di illusione e, potenzialmente, di pericolosa disillusione.
Certo è che gli studi si moltiplicano: la curiosità verso la neuroplasticità promette di offrire, in un futuro non lontano, nuovi elementi di riflessione e di discussione. E avere pareri differenti è già un modo di confrontarsi, di esplorare argomentazioni diverse e di tenere sveglio, vivo e giovane il nostro cervello, anche quando non è più in una fase di sviluppo.