Quanti anni ti senti oggi? Tra percezione e realtà
“Quanti anni hai nella tua testa?” è la domanda che ha posto via Twitter ai suoi follower Jennifer Senior, premio Pulitzer 2022, che ha scritto su questo argomento un bellissimo articolo su The Atlantic. La percezione della propria età è un tema con un notevole margine di soggettività. Siamo soggettivi in tutto, ovviamente. Ma, nel caso specifico, c’è un grande divario tra la sensazione soggettiva e la realtà. Parliamo di percezioni di noi, del nostro corpo, del nostro tempo e della nostra durata. Solo in condizioni di patologia e alterazione neurologica, oppure di difficoltà e sofferenza estrema – come avviene nei casi di dispercezione della propria mole corporea, ad esempio nei disturbi alimentari – esistono differenze così grandi. In generale, si rilevano piccole differenze, ma non abissi, tra la realtà – o quello che viene osservato dalla maggioranza delle persone – e quello che percepiamo di noi; inoltre, siamo anche in grado di collocarci nello spazio in modo consapevole: la propriocezione funziona per la maggior parte di noi. Ma cosa succede invece nella nostra mente rispetto alla percezione del tempo e della nostra età? Gli studi concordano sostanzialmente su un punto: la maggior parte delle persone, a partire dai quarant’anni, si percepisce come più giovane e si raffigura internamente con un’età di circa il 20% in meno. Le risposte che danno le persone, sia all’interno di ricerche sia nei salotti o sui social, sul motivo per cui sentono di appartenere a una certa età, sembrano sostenere un’ipotesi: ci “attesteremmo”, in qualche modo, sull’età in cui abbiamo percepito per la prima volta in modo chiaro e continuo una sorta di stabilità di coscienza, di percezione di noi e del mondo; oppure al momento della nostra vita in cui abbiamo ottenuto i primi traguardi importanti. Per chi volesse approfondire questi aspetti, consiglio di leggere gli articoli di due ricercatori che si occupano di memoria, memorie traumatiche e psicologia dell’invecchiamento, a partire da: Berntsen, D., & Rubin, D. C. (2002). Emotionally Charged Autobiographical Memories across the Life Span: The Recall of Happy, Sad, Traumatic and Involuntary Memories. Psychology and Aging, 17, 636-652 A noi qui basta riflettere su quello che emerge in linea generale dalle ricerche in questo campo: gli adolescenti e i giovani adulti tendono a percepirsi con un’età maggiore di quella reale; mentre a partire dai quarant’anni, come dicevamo, si tende a tornare indietro, o meglio a fermarsi – come percezione della propria età – ad una precedente età, in cui abbiamo raggiunto dei risultati. I ricordi più forti e mantenuti nel tempo sono quelli dai 15 ai 25 anni, in cui accadono, nella vita di ognuno, moltissime “prime volte”, cioè eventi che per tonalità emotiva tendono a persistere e a radicarsi nella nostra memoria. In conclusione, si può avanzare una considerazione: che le nostre rappresentazioni interne dell’età siano legate al valore che attribuiamo alla nostra capacità di agire nel mondo e sul mondo. Da piccoli, ci sentiamo più grandi e più capaci di impatto. Dai quarant’anni in poi, quando abbiamo già sperimentato di essere in grado di esercitare un impatto, restiamo in qualche modo legati a questa rappresentazione di efficacia e di potenza, che nelle nostre realtà socio-culturali e alle nostre latitudini è particolarmente legata a questa fascia di età. Curiosamente, gli studi rilevano minore divario tra età percepita ed età reale nelle società asiatiche: forse perché in queste culture – pensiamo in particolare al Giappone – è dato grande valore all’esperienza e all’età anziana, uno status considerato di elevata utilità nel contesto produttivo e sociale e degno di profondo rispetto .E allora, a latitudini diverse dalle nostre, non serve rappresentarsi internamente come più giovani: ci si sente comunque efficaci e capaci. Anche a novant’anni.