Operatori attraverso lo specchio: l’esperienza della supervisione come occasione di cambiamento per operatori e pazienti
di Giampaolo Carotenuto e Rosaria Ponticiello
“Può accadere che al vissuto di disorientamento e di abbandono dei piccoli, alla rabbia e all’ angoscia di frantumazione rispetto alla perdita della continuità del legame, agli esercizi di prova del legame, faccia eco negli operatori un bisogno di riparazione di aspetti feriti di un sè bambino”lasciato in silenzio , oppure l’attivazione di modalità genitoriali “buone” competitive rispetto a quelle delle famiglie di origine, o ancora l’adesione rigida a regole di funzionamento che definiscono argini di contenimento rispetto all’angoscia e impotenza esperita delle storie dei propri piccoli.”
Rosaria Ponticiello
Premessa
In questo lavoro descriveremo come l’esperienza gruppale di supervisione dell’ equipe di una comunità educativa per minori, diventa luogo privilegiato nel quale lavorare per riconnettere la trama interrotta di percorsi di vita dei piccoli ospiti, ma allo stesso tempo una preziosa opportunità per gli operatori di rivedere aspetti di sé attraverso lo specchio della relazione con il minore, amplificata dal lavoro di gruppo. Partendo dal resoconto della supervisione clinica indiretta di una operatrice dell’equipe, si delineerà il percorso di acquisizione progressiva di diversi gradi di consapevolezza delle dinamiche intrapsichiche e interpersonali che si attivano a contatto con l’utenza. L’obiettivo ultimo, resta quello di promuovere un modus operandi da interiorizzare, per lavorare al meglio coi minori accolti nelle comunità.
Ogni bambino che entra è una storia a sé
I bambini accolti in comunità si trovano spesso collocati in maniera coatta e, senza che gli sia spiegato nulla, si trovano a dover cambiare radicalmente la propria vita. Il tempo di permanenza favorisce lo sviluppo della relazione di fiducia tra il bambino e gli operatori, mentre la stabilità d’equipe operante favorisce la familiarizzazione che riduce il senso di precarietà e di estraneità.
Il bambino, che chiameremo Giulio, accede in struttura insieme al fratello, di due anni più piccolo, all’età di 11 anni. Vissuto in un contesto senza regole e accudimento, in una casa abusiva molto fatiscente, il bambino aveva l’autogestione totale della propria giornata, potendo decidere se e cosa fare senza che nessuno adulto decidesse al suo posto. Il padre per lavoro era sempre fuori casa, la madre con disturbo paranoideo di personalità con aspetti depressivi, si occupava poco fattivamente dei figli. Oltre loro c’è un fratello di 17 anni che dà l’allarme contattando il telefono azzurro. Giulio, perciò, entra in un contesto nuovo, fatto di regole da rispettare e nuove figure di accudimento.
Giulio e suor Margherita allo specchio
Il lavoro di supervisione, si focalizza sulla difficoltà di interazione tra un’educatrice e il nostro bambino. L’operatrice di riferimento di Giulio, Suor Margherita racconta la sua storia, ovvero entra in convento sin da piccola. La chiesa diventa il mondo che l’accoglie: orfana in fasce per un incidente che vede coinvolti i genitori e affidata a una zia, quest’ultima la inserisce in convento, l’unico luogo che le offre un tetto, dei legami di accudimento, dopo un duplice abbandono.
Con l’ingresso in comunità, Giulio porta con sé il suo messaggio relazionale: “faccio ciò che voglio! non riconosco nessuno, perché comando io!”. Questa definizione relazionale si scontra con quello della comunità, espresso dalla suora: “qui ci siamo noi, le regole vanno seguite e rispettate!”. Il bambino con il suo fare aggressivo, anche violento verbalmente, mette l’equipe a dura prova e nel tentativo di contenerne l’angoscia, traduce il suo comportamento come prova del legame di fiducia, restituendo allo stesso una comprensione di ciò che gli accade. Cerca cioè di lavorare per favorire la mentalizzazione delle emozioni per prevenire l’acting.
Allo stesso tempo questa modalità lavorativa, mette gli operatori nella condizione di dovere lavorare sulla consapevolezza della propria emotività, ovvero sulla capacità di gestire la provocazione e le paure legate alla propria storia personale.
La supervisione clinica
La supervisione dell’equipe accoglie la difficoltà vissuta da Suor Margherita nella relazione con Giulio. Da quanto emerso nel corso dell’incontro, tra i due si stabilisce una relazione simmetrica caratterizzata da oppositività, provocazione e rifiuto del rispetto delle regole imposte da Suon Margherita, che dal canto suo sente la frustrazione di non riuscire a “consolare” un bambino che le ricorda a tratti la sua di storia vita. La rabbia dell’educatrice si innesta sull’idea che al bambino “non manca niente” e il suo comportamento oppositivo non è motivato, seguendo così la logica e il copione delle cure e delle modalità di contenimento da lei ricevute da ragazzina dalla stessa congregazione. Quando il supervisore le fa notare che probabilmente anche Giulio protesta e pretende un accudimento da parte dei suoi genitori, e che verosimilmente per quanti sforzi gli educatori possano fare, la casa famiglia non potrà mai sostituire. Suor Margherita scoppia in un pianto liberatorio e si ricorda della sua protesta silenziosa e dispettosa messa in atto durante la sua infanzia. Le lacrime di suor Margherita, accolte dal supervisore e dall’intera equipe, sono quelle che “sciolgono” il nodo irrisolto dell’educatrice, il dolore negato di una storia difficile che la vede orfana affidata ad estranei che se ne prendono cura. Questa storia la porta a identificarsi particolarmente col dolore di Giulio, che risponde ai suoi tentativi di contenimento con sgarbo e dispetti, atteggiamenti oppositivi significativi di una rabbia che non può essere verbalizzata.
Accade quindi che l’operatore porti con sé il proprio modello familiare e che lo stesso vissuto possa influenzare il lavoro coi bambini, creando intrecci biografici originali che diventano gravidi di risvolti anche riparativi reciproci. Il tentativo di Suor Margherita di curare la ferita di Giulio, è un estremo tentativo di trovare un rimedio al suo dolore, ma Giulio, con i suoi comportamenti da “ingrato”, si oppone alla speranza personale che la suora veicola col suo fare, ovvero che quel dolore è risolvibile. Giulio è come se sottolineasse che niente e nessuno può davvero alleviare il dolore di una perdita così grande, e che la vera elaborazione passa per l’accettazione di una ferita che deve essere vista nella sua “durezza” per poter essere riparata.
Conclusioni
La supervisione di gruppo funge, non solo da strumento meta, di deutero apprendimento, ma anche da sostegno mostrando accoglienza al vissuto della suora e aprendo ad una riflessione: il punto sul quale la suora deve focalizzarsi è la rabbia del bambino per una famiglia che non lo vuole o non può averlo, ma soprattutto che non se ne prende cura come lui avrebbe voluto. Il vissuto abbandonico rispetto ai propri bisogni diventa lo sfondo delle relazioni attuali e future. Grazie al lavoro di supervisione, che ha supportato la Suora con un abbraccio in silenzio, emerge che la storia e il comportamento di Giulio fanno da specchio a ciò che per anni è rimasto irrisolto di Margherita e in questo incontro folgorante fatto di riflessi reciproci, si realizza l’illusione di essere la cura “magica” del dolore indelebile dell’altro. È a questo livello comunicativo che Giulio rifiuta e si sottrae. Il legame non è solo gravido di promesse salvifiche, ma anche una minaccia alla propria incolumità psicofisica, perché laddove c’è legame persiste l’agguato interno (lealtà) ed esterno dell’abbandono reale o potenziale. Uno sviluppo funzionale della relazione tra Giulio e la suora può iniziare qualora Suor Margherita riesca a riconoscere, a partire dalla propria ferita aperta, il dolore insanabile del bambino così da istaurare una nuova relazione a partire dall’accettazione di non potersi mai sostituire alle traiettorie di vita mancate.