Amore malato
di Fulvia Ceccarelli
Credo che le cose non accadano mai per caso. Mi riferisco al fatto che alcuni giorni fa, mentre stavo raccogliendo le idee per scrivere questo articolo, mi sono imbattuta su Facebook in un messaggio che recitava più o meno così: …sono stata pesantemente minacciata da un uomo che conosco. Alcune persone fidate sanno chi denunciare nel caso mi accada qualcosa. Ho avuto una vita piena, ho amato con un’intensità che forse pochi conoscono e i tanti amici che ho non sono entrati casualmente nella mia vita, ma sono stati scelti con cura, perché condividono i miei stessi valori… Al momento ho provato un forte disagio e, mettendo in atto una massiccia negazione, ho pensato ad uno scherzo di cattivo gusto. Solo dopo aver letto attentamente i commenti “reali” alle parole di quella donna, ho colto la drammaticità della situazione, che mi è arrivata come uno schiaffo in piena faccia. Mi trovavo di fronte a quella che mi è parsa una richiesta di aiuto fiera, coraggiosa, come il gesto di un naufrago che, non smettendo di sperare, affida al mare il suo messaggio in bottiglia. Nella frazione di un secondo, un pensiero vigliacco mi ha attraversato la mente: non pubblicare nulla, per evitare che quell’uomo se la prenda anche con te. Ora mi chiedo: se in preda a una paura irrazionale mi sono paralizzata io, che ho provato sulla mia pelle solo una scheggia della paura che verosimilmente provano le donne minacciate per davvero, come possono sentirsi loro? Quali tremende fatiche le attendono? Perché la paura è subdola: ti paralizza e ti isola. E se c’è una cosa di cui loro non hanno proprio bisogno è l’isolamento.
Mettendo a frutto questa preziosa quanto insperata esperienza, cercherò di accostarmi in modo più empatico e meno didascalico a un tema così delicato. Penso di doverlo alle donne maltrattate.
Quasi quotidianamente la cronaca ci informa di un uomo che ammazza la compagna che ha avuto il torto di lasciarlo. Immancabilmente i vicini di casa intervistati, non capacitandosi dell’accaduto, ripetono come un mantra che l’omicida era una persona assolutamente normale. “Era”- dicono, perché ora non lo considerano più tale. Infatti rimaniamo increduli dinnanzi ad un amore intenso che viene profanato sino alle estreme conseguenze, tanto da mettere in dubbio che si sia trattato di vero amore. Purtroppo è amore, seppure malato. E tragicamente, per molti di noi, l’unica forma di amore possibile. Perché l’unica conosciuta.
La violenza sulle donne è un mostro che si nutre di maltrattamenti fisici diretti o psicologici indiretti oppure agiti in nome di presupposti ideologici o religiosi ritenuti sacri e inviolabili. Stiamo parlando di un fitto sottobosco di aggressività distruttiva con un’unica disastrosa conseguenza: la scarnificazione dell’amor proprio di una donna con riduzione in poltiglia della sua autostima. E dato che parlarne tocca corde profonde, spesso lo affrontiamo in modo semplificatorio. Mentre lo sforzo cui siamo chiamati è quello di adoperare le lenti della complessità, che è la cifra dell’umano. Pena la banalizzazione, tanto fuorviante quanto inutile a trovare un senso a ciò che accade sotto i nostri occhi increduli. Mi riferisco, ad esempio, al fatto di imputare solo a secoli di cultura maschilista la causa di tanta violenza. Fermo restando che essa pesa come un macigno sulla storia delle donne, non riesce però a spiegare il paradosso dei nostri giorni. E cioè che, nonostante negli ultimi cento anni l’acquisizione dei numerosi e fondamentali diritti dalle donne abbia ridisegnato lo status femminile (possibilità di votare e di essere elette, accesso ai pubblici uffici, abolizione del licenziamento a causa del matrimonio e durante la gestazione, abolizione dell’adulterio come reato, abolizione del delitto d’onore, parità sul lavoro: uguali diritti uguali salari, ecc.), ancora oggi molte donne adulte e libere, dopo il primo spintone o dopo la prima seria violenza verbale, anziché allontanare da sé l’uomo che le sta minacciando, preferiscono raccontarsi e raccontare agli altri che in fondo non è successo nulla.
Credo che la causa di questo comportamento apparentemente insensato sia da ricercarsi nel fatto che molto spesso dietro un reato di femminicidio, termine crudo per indicare come l’uccisione delle donne stia assumendo proporzioni che vanno ben oltre la frequenza dei delitti generici, si celino risvolti psicologici che affondano le loro radici nella storia degli individui coinvolti: uomini e donne. L’evidenza dei fatti ci suggerisce che affrontare il problema da un punto di vista civile, sociale e penale, trascurando la dimensione psicologica, è necessario ma non sufficiente ad evitare che la violenza domestica rimanga la prima causa di morte nel mondo, per donne di età compresa tra i sedici ed i quarantaquattro anni. Più degli incidenti stradali e più delle malattie.
Sappiamo che l’esperienza umana dell’amore, almeno nelle sue fasi iniziali, ha a che fare con l’eccesso, perché arriviamo ad esigere il possesso della persona amata, con cui ci sentiamo fusi insieme. Sappiamo inoltre, per esperienza, che amare è un salto nel buio, perché ci fa toccare con mano quanto la nostra esistenza sia in balia del desiderio altrui. Infatti l’altro, proprio separato e diverso da noi, può tradirci e ferirci nel profondo. Possiamo comunque decidere di correre il rischio, arrabattandoci come possiamo. Magari soffrendo terribilmente di gelosia al pensiero che qualcuno, un domani, possa prendere il nostro posto. Il punto è che in un amore sufficientemente maturo, terminato l’incantamento iniziale, ognuno si riappropria dei propri confini. Mentre un amore profondamente malato va in frantumi nell’istante stesso in cui si esaurisce il periodo fusionale, così caldo e rassicurante. La sofferenza che ne può scaturire per alcuni è così devastante, che tentano di ripristinare la fusione con la forza fisica: espediente misero per scacciare il fantasma dell’abbandono e della dipendenza totale dalla persona amata.
Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, elaborare il lutto per ciò che ha perduto, misurarsi con la propria solitudine, perseguita, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame affettivo non rappresentava un completamento, ma l’unica ragione di vita. Dobbiamo ricordare, invece, a dispetto di quanto ci invitano a fare i media, che la caratteristica della condizione umana è l’esperienza del limite: non possiamo godere di tutto, avere tutto, essere tutto. Non si tratta di una norma giuridica, ma del fondamento etico di ogni civiltà. Se viene valicato c’è distruzione, odio, annientamento di sé e dell’altro. Dunque l’unica condizione che rende possibile l’amore è la capacità di restare soli, accettando il proprio limite e la propria solitudine. Se siamo fortunati, chi ci aiuta a crescere ci fa sperimentare il senso del limite, stando accanto a noi quando ci scontriamo con la frustrazione che ne deriva e contemporaneamente testimoniandoci con la sua presenza che ce la si può fare. Il fatto è che non tutti gli adulti ne sono capaci.
Credo anche che in molte violenze maschili si possa rintracciare un grave inciampo nel percorso evolutivo individuale. Noi siamo esseri relazionali: nasciamo da una relazione e cresciamo all’interno di una rete di relazioni, di cui quella più determinante, perché fungerà da stampo per le nostre relazioni future, è quella con nostra madre. E a differenza delle altre specie animali, veniamo al mondo molto più impreparati a sopravvivere autonomamente, perché ereditiamo pochi saperi “innati”. Infatti nessun neonato, da solo, è in grado di provvedere ai propri bisogni primari di cibo, acqua, pulizia, ecc.: questo è il fondamento biologico del bisogno di essere amati. La relazione con la mamma è dapprincipio fusionale. Non potrebbe essere altrimenti. I neonati non sono dotati né di pensiero né di parola. È la mamma che, facendo appello al suo istinto materno, cerca di decifrare le ragioni di un pianto dirotto, trasformando sensazioni oscure, minacciose e pervasive in bisogni che possono essere accolti e soddisfatti e in emozioni dotate di un nome. Questo significa che la relazione materna getta le basi per l’accoglienza, per una mente pensante e per un’educazione emotiva. Solo a partire dall’ottavo mese il bambino comprende che lui e la mamma non sono un tutt’uno, tanto è vero che gli subentra la crisi d’angoscia quando lei si allontana. Ed è proprio in questa fase che comincia anche a riconoscere l’importanza di una terza figura, il padre, la cui entrata in campo svolge il ruolo fondamentale di rompere il legame simbiotico madre-bambino. Si tratta di una fase delicata e dolorosa, che può essere favorita o ostacolata. Dipende da come i nostri genitori ed in particolare nostra madre si collocano rispetto al tema della separazione: ci hanno fatto i conti e hanno imparato ad accettarla oppure, essendo per loro stessi un problema, vi si oppongono strenuamente? Perché è da questo snodo cruciale che dipende la conquista della separatezza, dell’autonomia, dell’unicità e dell’individuazione: in buona sostanza, non siamo cloni di nessuno e possiamo diventare ciò che realmente siamo solo dispiegando il nostro personale patrimonio di potenzialità.
Fatta questa premessa, l’uomo che ammazza la partner da cui è stato lasciato sembra vivere inchiodato a una dimensione a due, molto regressiva, di cui non tollera l’interruzione. A differenza di quanto accade nei delitti passionali, in cui l’uccisione del rivale testimonierebbe almeno l’acquisizione di una dimensione a tre. Possiamo definire il mal d’amore un vissuto di sofferenza anche molto intenso, che nasce dalla delusione profonda per un sentimento non corrisposto o per la fine di una relazione. Si tratta di un periodo transitorio necessario ad elaborare la perdita, che lascerà il posto ad un nuovo equilibrio interiore. Una relazione dipendente, invece, come quelle sin qui descritte, è destinata alla sofferenza perpetua perché ingabbia a vita. E non potrebbe essere diversamente, visto che scaturisce dalla paura dell’abbandono e della solitudine.
Credo che il tema della violenza sulle donne debba essere affrontato in un’ottica preventiva e dunque coinvolgere tutti e in particolar modo i genitori, perché rimanda inevitabilmente al tema degli stili educativi. Purtroppo, però, il complicatissimo mestiere di genitori non prevede un libretto di istruzioni, perché si impara facendolo, attingendo alla propria esperienza non sempre fortunata di figli. Con tutti gli strascichi che questo comporta in termini di inadeguatezza e difficoltà. Da terapeuta posso dire che la mancata acquisizione del senso del limite, sin dalla più tenera infanzia, si sta configurando come una vera e propria patologia sociale per le derive violente cui può dar luogo. Che un uomo che si sia macchiato del reato di femminicidio, oltre a scontare una pena commisurata, intraprenda un percorso psicologico riabilitativo è certamente apprezzabile ma non sufficiente a ridurre la macabra conta delle vittime. Perché, a mio modo di vedere, dovrebbe essere affiancato da una capillare sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui rischi insiti in certe carenze educative, da parte di quei terapeuti convinti che il loro mandato istituzionale non si esaurisca all’interno dei loro studi privati.