Discutere nell’era dei social: quali sono i meccanismi in atto e come può la psicologia aiutare?
di Corrado Schiavetto
In questo periodo pandemico abbiamo assistito a un cambiamento di paradigma riguardo i metodi e gli strumenti di comunicazione. Sebbene questo cambiamento fosse già in atto da più di un decennio, l’obbligo di distanziamento sociale ha ridotto la possibilità di interazione in presenza, aumentando quindi l’impatto dell’interazione attraverso i vari social media, che hanno visto un aumento di traffico dei propri utenti, nonché l’evoluzione di nuovi linguaggi.
Quello però che in alcuni casi è passato più in sordina è stato, nel cambio di questo paradigma, l’incontro fra persone non propriamente abituate al dialogo attraverso uno schermo con le persone che, dal canto opposto, di questa forma di comunicazione avevano già appreso i meccanismi.
Già in un articolo del 2006, Identity, Social Networks and Online Communication (ricordiamo che Facebook è stata fondata nel 2004) si domandava se Internet stesse creando nuove persone o se semplicemente ci stesse permettendo di scoprire una nuova facciata della nostra identità. In quell’articolo, proprio dei primi paradigmi teorici riguardo il mondo virtuale, l’assioma era “non fidarti di coloro che incontri su internet e di ciò che trovi su internet”, regola che, con il passare del tempo, si è ritrovata a venire radicalmente rovesciata in gran parte delle attuali generazioni, diventando piuttosto un “non ti fidare delle informazioni che i media tradizionali ti offrono, cerca tutto su internet”: se da un lato questo ha garantito un flusso continuo di informazioni e la possibilità per voci altrimenti soffocate di essere ascoltate e, soprattutto, riconosciute (pensiamo a tutti i movimenti femministi intersezionali, alle informazioni venute dai vari gruppi umanitari e al modo in cui popolazioni oppresse sono riuscite a far sentire la propria voce attraverso i media non ufficiali), allo stesso tempo ha portato al proliferare di teorie del complotto, di ricerca di fonti oscure e alla creazione di piccole sacche di gruppi fortemente estremisti che, chiusi nella loro bolla, non hanno fatto che autoalimentarsi di notizie falsate.
Quali sono quindi le dinamiche che sono entrate in atto a seguito di questo cambiamento di paradigma fra l’interazione offline e quella online? Sebbene sia impossibile identificarle tutte, cercherò in questo breve articolo di evidenziare alcune delle più comuni e di fornire qualche termine e consiglio a riguardo.
Una delle primissime dinamiche, è quella denominata della echo chamber, o echo bauble. Traducibili come “camera dell’eco” o “bolla dell’eco”, questa dinamica è sia volontaria che involontaria. Ogni social media difatti, che sia facebook, che sia twitter, instagram, tiktok o altri, funziona tramite algoritmi per mostrare i propri contenuti. Questi algoritmi, di cui mi rendo conto di dare una spiegazione grossolana, sono strutturati per esaminare, dove sia stato dato – consapevolmente o meno – il proprio consenso, la propria cronologia di ricerca internet e i post a cui si è data maggiore visibilità. O condividendoli, o commentandoli, o mettendo un like. Farà quindi in modo di considerare questi segnali come una richiesta da parte dell’utente di ricevere nel proprio feed un maggior numero di contenuti simili, a cui tenderà a mettere un maggior numero di likes, e così via, in un ciclo continuo. Il concetto di eco, quindi, è letteralmente il continuo rimbombare nella propria pagina principale solo di contenuti che via via saranno sempre più polarizzati verso il proprio punto di vista, azzerando la possibilità di avere punti di vista opposti. Una serie di ricerche (Duggan & Smith, 2016; Bakshy et al. 2015; Flaxman, Goel e Rao, 2016; Jennifer Brundidge, 2010) hanno mostrato che vi è quindi un rischio elevato sia di venire esclusi sul piano dell’informazione da quelle che sono le tesi opposte alla propria, sia un aumento sul piano delle ideologie, con una sorta di invisibilità selettiva a discorsi alieni a queste ideologie o contrarie. Il risultato, molto spesso, è un continuo inasprimento della discussione a ogni livello, con un rafforzamento della propria identità di gruppo e sociale a discapito della propria identità personale e, proprio per questo, un rifiuto sempre più marcato di tutti i pensieri contrari al proprio.
L’effetto più subdolo di questo meccanismo però si ha – azzerando ogni confronto che non sia improntato all’aggressione reciproca – in due direzioni: da un lato, ogni discussione si ritrova ad avere lo stesso peso, perché viene vista in entrambi i casi come espressione di un estremismo. Ogni gruppo tenderà ad attirare dentro di sé persone in parte legate a obiettivi simili e simili proteste, ma in parte semplicemente desiderose di avere un “nemico” contro cui scagliarsi, portando la discussione a livelli ancora più distruttivi e non costruttivi. Un esempio di questa situazione è stato evidenziato da una ricerca (Jhaver, S., Chan, L., & Bruckman, A., 2018), che ha analizzato un fenomeno sociale definito GamerGate, nato a seguito di critiche di un gruppo di utenti (principalmente sulla piattaforma Reddit) nei confronti della sviluppatrice di giochi Zoe Quinn, portando poi a una escalation di azioni e reazioni. Senza entrare nel merito di tutte le dinamiche ma rimandando all’articolo, ciò che i ricercatori hanno evidenziato è stata l’omogeneità dei partecipanti del GamerGate e l’evidenza della disparità di opinioni interne ed esterne riguardo a cosa fosse una molestia su internet e chi ne fosse vittima. Si è vista quindi una sorta di polarizzazione fra gruppi “buoni” e gruppi “cattivi”, dove a un gruppo viene permesso l’utilizzo di linguaggio e insulti che vengono vietati dall’altro gruppo, con la conseguente reazione di chiusura e aggressione.
Nello stesso articolo viene fatto l’esempio della possibilità di uscire da una simile dinamica, citando l’esempio di Linda West del 2015, dove, dopo aver incontrato dal vivo la persona che l’aveva molestata di continuo su internet, ha ricevuto dalla stessa le sue sincere scuse, potendo lei stessa riconoscerne l’umanità e la fragilità.
Il problema quindi di discutere sui social è questo quindi: la perdita dell’immagine di umanità della persona dall’altro dello schermo, l’incapacità spesso di uscire fuori dalla propria camera dell’eco e – forse – il bisogno di circondarsi di opinioni che siano quasi esclusivamente concordi con il proprio punto di vista, al punto di considerare ogni altro punto di vista errato e, in quanto tale, da criticare, insultare o aggredire. Aggredire però un punto di vista attraverso uno schermo, senza poter osservare direttamente la persona che l’ha espresso, porta di riflesso a una sovrapposizione fra comunicazione e comunicante, in cui viene ad “appiattirsi” l’identità della persona, relegata solamente alla singola affermazione e, dunque, giudicata in base alla singola affermazione.
Questo appiattimento porta di riflesso anche a un continuo modificarsi delle opinioni: un esempio sotto gli occhi di tutti è avvenuto in merito a persone anche note come J.K. Rowling, amata per la saga di Harry Potter e subito dopo odiata per le sue affermazioni transfobiche o per il professore Alessandro Barbero, apprezzato (in alcuni casi osannato) per le sue capacità divulgative e l’impegno nel portarle avanti, che ha subito campagne d’odio per una frase, potenzialmente infelice quando del tutto travisata, estrapolata da un’intervista.
In psicologia, questo meccanismo può entrare nel campo della scissione: separare totalmente ciò che è buono da ciò che è cattivo, senza nessuna possibilità di collegamento fra le due parti, è un meccanismo che viene messo in atto principalmente nell’età infantile come modo per organizzare primariamente la propria esperienza. La madre che dona il latte è “buona” in quanto fornisce una sensazione piacevole, la madre che non dona il latte è “cattiva”, in quanto fornisce una sensazione spiacevole. In questo modo il bambino struttura il mondo e, tramite l’esperienza di quella che è la frustrazione, impara a collegare questi due estremi per poter giungere alla costruzione interiore di una figura completa.
Nei social come detto questa scissione psicologica è aumentata anche dalle modalità in cui vengono fornite le informazioni: i criminali vengono descritti come “mostri”, le vittime come “santi”, senza alcuna possibilità di visione intermedia. L’assenza quindi di una possibile zona grigia in cui sperimentare la complessità della natura umana porta ad avere reazioni fortemente polarizzate, in cui non è possibile vedere l’altra persona se non come “alleata” o “nemica”.
Risulta quindi importante comprendere come queste dinamiche online possano ripercuotersi poi nel contesto offline può aiutare anche a uscire fuori da questo ciclo di polarizzazione estremizzazione e scissione.
Fra i consigli che si possono dare è quello di non rendere invisibili informazioni contrarie al proprio punto di vista, ma di leggerle, esaminarle e – una volta integrate – confutarle. Possibilmente evitare quindi di ascoltare solo opinioni favorevoli alla propria e di considerare le persone nella loro complessità, non trasformando una loro singola affermazione nel totale nucleo identitario che le rappresenta. Possibilmente poi, cercare il contatto non attraverso la parola scritta ma tramite il dialogo se non frontale almeno a voce: tutte le nuances che normalmente fanno parte della comunicazione interpersonale (prossemica e tonalità) vanno a perdersi nella comunicazione puramente scritta, potendo generare da un lato confusione e dall’altro lato aggressività.
Il mondo virtuale è destinato indubbiamente a diventare una realtà sempre più ingombrante, e la comunicazione tramite social è destinata a soppiantare sempre di più la comunicazione tramite i media più tradizionali: riuscire quindi a districarsi nella giungla di quelli che sono i suoi meccanismi e le sue dinamiche può renderlo uno strumento in grado di arricchire e unire le varie diversità che fanno parte della nostra società, cancellando quelle che sono le barriere che ancora adesso le separano.