Essere genitori, essere madri: adottare la vita dell’altro.
di Assunta Sagliocco
“Non conosciamo mai l’amore
di un genitore finché non
diventiamo genitori noi stessi. “
(Henry Ward Beecher)
La genitorialità è considerata nella teoria classica, come uno stadio di sviluppo nella vita di un adulto. In termini più attuali la genitorialità va intesa non tanto e non solo come una fase dello sviluppo che viene raggiunta sotto la spinta biologica e fantasmatica a procreare, ma come un processo trasformativo che evolve nel corso della vita e attraverso il quale viene sviluppata una costellazione di capacità affettive e psichiche. La domanda che sempre un genitore dovrebbe porsi è: cosa necessita la vita del figlio.
Un bambino, nella sua condizione di figlio, è condizione stessa della vita umana: è al mondo grazie all’altro, bisognoso dell’amore dell’altro, non padrone delle proprie origini. Per i primi anni di vita, dipende esclusivamente da chi si prende cura di lui, da chi soddisfa i suoi bisogni fisici e psichici, ma non sempre queste funzioni sono svolte bene dai suoi genitori, solo perché sono loro, coloro che lo hanno generato. Lo saranno solo se avrà accanto a se‘dei genitori sensibili, capaci di sintonizzarsi sulle sue esigenze, offrendogli tutte le cure e l’affetto di cui avrà bisogno nel corso degli anni, riuscendo ad affrontare con luile diverse fasi della vita che si susseguiranno, con empatia e duttilità.E questo può accadere attraverso qualsiasi forma di genitorialità.
Nel corso della vita, si incontrano molti padri e madri, cioè figure che simbolicamente svolgono queste funzioni, e allo stesso modo si possono avere più figli, in quanto essere genitori è prima di tutto far esperienza del prendersi cura, dell’accettazione dell’altro diverso da noi, ma che amiamo senza remore. Madre e padre, al di là delle rappresentazioni stereotipate, dunque, sono innanzitutto, due funzioni simboliche di cui la vita umana ha bisogno.
L’amore materno è un sentimento e come tale, può esistere o non esistere, essere o non esserci, perdersi, non scontato. Dimora Pines afferma che :”può esistere gravidanza senza capacità di assumersi il ruolo di madre e maternità senza l’esperienza di gravidanza: donne non madri nel senso biologico ma capaci di amore materno e donne madri, incapaci di attitudine materna”.Fino ad un certo periodo, il senso materno era concepito come un istinto innato,radicato nella natura femminile, predisposizione biologica che attendeva solo il momento di manifestarsi. Secondo questa prospettiva, al fenomeno biologico e fisiologico della gravidanza, corrisponde un determinato comportamento materno che si manifesta per un tempo prolungato, comprensivo dell’allevamento e dell’educazione del bambino fino a quando non diviene adulto. Successivi studi, hanno consentito di sfatare molti luoghi comuni sulle donne, e in particolare sul senso materno come una qualità innata, presente in ogni donna.
Oggi la maternità non coincide più dunque solo con l’esperienza effettiva della gestazione ma, grazie al potere della scienza, e grazie all’adozione, si è estesa ad altre possibili forme che come ci ricorda Massimo Recalcati, indicano una sua funzione essenziale: “la madre è il nome dell’Altro che non lascia che la vita cada nel vuoto, che la trattiene nelle proprie mani impedendole di precipitare, è il nome del nostro primo soccorritore”. E citando dal suo libro “Le mani della madre”, ci ricorda che per diventare madre non basta mettere a disposizione il proprio corpo, il proprio utero, ma è necessario un “si” radicale, un’apertura del proprio essere, un accoglimento senza riserve della vita attesa, senza il quale la vita non trova ospitalità. Come afferma [Ansermet; 2004]: “ogni figlio è un figlio adottivo”, nel senso che deve essere adottato da un desiderio e il legame di filiazione deve essere costruito e inventato indipendentemente da un riscontro biologico e storico. Ed è questo ciò che rende una madre “sufficientemente buona”, come direbbe Winnicott.
Inoltre, con l’esperienza clinica è stato possibile notare come in situazioni favorevoli, dove la nascita non è conseguenza diretta di un bisogno o di un progetto, ma dove il figlio viene amato per il fatto stesso di essere al mondo, vi può essere una maggiore spinta alla crescita anche per i genitori, che sono più centrati sul legame di coppia, possono elaborare traumi e conflitti passati, focalizzandosi anche sull’ambiente sociale.
Potremmo dunque dire che l’eredità che un genitore deve lasciare a un proprio figlio, deve andare oltre la trasmissione genetica, deve essere presente nell’inseguimento del desiderio di realizzare se stesso. La verità è che legami che durano nel tempo si fondano sull’incomprensibilità. Bisognerebbe amare un figlio, non perché ci assomiglia, ma proprio perché è diverso da noi. Probabilmente il più grande regalo che gli possiamo fare è desiderarlo, desiderare il suo arrivo.
E Lacan, ci ricorda che amare è dare all’Altro quello che non si ha.
Dopotutto è vero che la vita del figlio proviene dall’altro, ma deve realizzarsi come vita propria.