Il potere della relazione: storie di una Comunità educante

Il potere della relazione: storie di una Comunità educante

P. è una bambina di otto anni. Una di quelle insopportabili, ma che restano impresse nel corpo, negli occhi e nei pensieri. È bellissima, bionda, magra, nasino a patatina e sorriso che rapisce. Sembra più piccola della sua età. La voce è dolcissima, musica per le orecchie, di una seduttività unica. La ascolterei parlare per ore, quando non è arrabbiata.

P. è un’utente di una Comunità per minori, abusata e letteralmente abbandonata come un pacchetto regalo dai suoi familiari. Cerca disperatamente un oggetto d’amore, assente dentro di lei, in un legame di tipo borderline che monopolizza e poi distrugge l’operatore di turno.

Scatta quasi ogni giorno, alla più piccola frustrazione, convogliando in picchi di attivazione che in casa chiamano “crisi”. È impensabile che uno scricciolo tanto fragile possa creare tanto scompenso, eppure scrivo stasera con circa 5 lividi sulle gambe doloranti e una mano completamente graffiata.

Oggi la crisi è scattata quando è stata interrotta in un picco massimo di eccitazione. Così da oggetto idealizzato sono passata ad essere svilita, insultata e aggredita con calci, graffi e pugni. Veloce la porto in camera, primo tentativo di contenimento spaziale definito. Anche lì comincia a buttare tutto per aria, e a urlare a oltranza. Mi siedo calma, osservandola in silenzio. Schivo facilmente gli oggetti che cerca di lanciarmi addosso, quindi ora è arrivato il mio turno.

Si avvinghia alla mia gamba cercando di mordermi e di graffiare qualsiasi parte del corpo le capiti a tiro – <<io ammazzo te e tutti quelli che non mi calmano>> – urla – <<ti ammazzo se non mi calmi!!>>. Mi limito ad attutire a mani aperte i suoi colpi, continuando ad osservarla. Quando comincia a mordermi mi alzo e cerco di allontanarmi, mi sta facendo male. <<Non devi uscire!! Non ti lascio!!>> mi dice, agganciandosi alla gamba. Dopo qualche passo mi siedo sul letto, è un luogo simbolicamente più morbido e delicato. Lei è sempre lì, stretta stretta al mio piede. <<Non far finta di non sentire!!!>> protesta alla mia osservazione silenziosa. <<Tu mi fai del male, ti odio. Ti odio, stro**a>>.

Lentamente, ad ogni insulto, ogni grido lanciatomi contro, la rabbia che inizialmente scatena P. ad ogni sua crisi scivola via, e mi lascia un grande senso di vuoto nella pancia. <<ti odio, mi fai del male>>, ogni singolo urlo penetra lasciandomi una crepa. Mi fa male… resisto ancora un po’, ma mi sento spezzare.

È successo, sono un oggetto rotto, distrutto, come tutti gli oggetti che passano nelle sue piccole manine screpolate. Tutti i regali, tutti i gesti d’amore, vengono lanciati, sfondati in un suo impeto di rabbia. Anch’io sono uno di quelli, mi sento letteralmente spezzata a metà. Mi assale un tremendo stato di angoscia << Non posso più aggiustarmi>>, penso spaventata.

Non immagino come possa essere cambiato il mio sguardo in quel momento, rivolto verso la parete, forse un po’ assente, forse rispecchia quel vuoto che sento dentro. Fatto sta che i graffi di P., i tentativi di staccare il bottone del camice colorato insieme, diventano un disperato tentativo di tirarmi a sé. Ad ogni sua stanca spinta segue un forte strattonarmi verso di lei.

D’impeto la prendo a me, facendola sedere sulle mie gambe, la sua schiena vicino il mio petto. Si lascia tenere e avvolgere dalle mie braccia. Cominciamo a fare insieme “l’abbraccio della farfalla”, le mie mani sulle sue. Mi lascia fare, si lascia trasportare mentre a voce stanca e bassa continua a dire <<mi fai del male, mi devi calmare>>. Avvicina la sua testa alla mia, sfinita.

Trattengo il respiro per un secondo… ma crollo affondando il mio volto nella sua schiena, abbandonandomi ad un pianto profondo. Piango, piango nella paura di ciò che è andato distrutto, che il passato non possa ricomporsi. Piango come una bambina, senza trattenermi, sola e fragile di un’angoscia uterina. P. è un po’ sorpresa, ha visto bene? Scruta i miei singhiozzi incredula.

<<Per favore P., puoi abbracciarmi?>> le chiedo. Si gira all’istante, lanciandomi le braccia al collo. Non c’è più rabbia, non c’è più distruzione. Il suo pianto è autentico, angosciato, libero. Piangiamo insieme per diversi minuti, la mia testa nella sua spalla, gli occhi chiusi. Assaporo ogni parte del suo corpo stretta forte a me, sento le piccole ossa sotto le dita: è così piccola che le mie mani toccano il gomito dell’altro braccio. È tanto piccola che temo possa sfuggirmi, e deve aver provato una sensazione simile, poiché sento il suo abbraccio aumentare di intensità, in una forza inusuale per la sua stazza.

Restiamo così, in un momento senza tempo, ci stringiamo forte. Pian piano il mio stomaco si nutre di nuovo, di una sensazione calda e rassicurante. Il suo corpicino riesce a tenere insieme i pezzi con l’intensità e la fermezza necessaria a cominciare a ricompormi. Non mi hai distrutto, piccola P. Sono ancora qui, sono ancora intera.

Dopo diversi minuti allento la presa e la guardo. Piagnucola ancora, gli occhi rivolti al pavimento. <<Grazie per questo abbraccio P., ero molto triste e tu mi hai consolata. Ci siamo consolate a vicenda>>. Le do un bacio sulla guancia.

Il giorno dopo appena arrivo in Comunità P. annuncia, dal telefono della coordinatrice, che ha una lettera per me. Me la porge rientrata in casa dalla visita medica, i suoi occhi curiosi e un po’ intimoriti mentre scarto l’involucro per aprirla.

“Cara Gaia

scusa per ieri

 ci perdoniamo a vicenda?       SI     NO”

P. oggi ha fatto esperienza di reciprocità. E si, perdoniamoci a vicenda.

P. ha una capacità unica: crea scompenso ma lascia il cuore pieno.