La felicità fa bene alla salute?
Una ricerca mette in luce connessioni sorprendenti.
Un interessante articolo di Erman Misirlisoy fa riferimento a uno studio pubblicato nel 2020, che dimostra come la felicità di una persona appaia correlata a un prolungato mantenimento della memoria e a un declino cognitivo più lento nel tempo.
Al di là di tutti i luoghi comuni, ovviamente sensati, su quanto possa essere d’aiuto per la salute fisica e mentale sentirsi felici, è molto difficile effettuare ricerche in questo campo.
Lo studio citato si basa sull’analisi dei risultati di una lunga ricerca longitudinale, durata 18 anni, da metà anni ’90 a metà anni 2010, a cura di Emily Hittner e colleghi. I soggetti coinvolti avevano un’età compresa tra i 40 e i 60 anni: in tre diversi momenti temporali, a distanza di nove anni l’uno dall’altro, i partecipanti sono stati intervistati a proposito di come si erano sentiti emotivamente durante i 30 giorni precedenti. Veniva loro chiesto di riferire quante volte, durante quell’arco di tempo, si fossero sentiti di buon umore, allegri, motivati, entusiasti, calmi e sereni.
Durante il secondo e il terzo incontro, cioè a 9 e 18 anni di distanza dalla prima rilevazione, i ricercatori hanno anche raccolto dati sulle prestazioni della memoria dei partecipanti. Il test consisteva in un messaggio telefonico in cui venivano elencate 15 parole non correlate: alle persone veniva poi chiesto di ricordarne il maggior numero possibile, entro 90 secondi.
I dati raccolti hanno confermato due semplici assunti, per quanto riguarda i soggetti coinvolti: 1. che la memoria diminuisce con l’età e 2. che i sentimenti positivi (che possiamo grossolanamente raggruppare nel termine “felicità”) aumentano invece con l’età.
In realtà, questo vale perché nel campione non erano rappresentate persone molto giovani. È infatti provato, dalle ricerche sulla felicità in diversi paesi del mondo, come esista una costante rilevabile: le persone hanno in genere un’elevata felicità nella fascia comprendente i giovani adulti; la curva di felicità scende nella fascia di età dei 40-50enni (intorno ai 30-40 si ha il picco dello stress), per poi risalire di nuovo oltre i 60 anni.
Hittner e colleghi hanno rilevato che le persone che avevano riferito di sentirsi più felici, durante la misurazione a nove anni dall’inizio dello studio, hanno mostrato un minore declino della memoria alla fine dello studio nove anni dopo, cioè a 18 anni dall’inizio della ricerca. In conclusione: una minore “felicità”, percepita e riferita dalle persone coinvolte, era costantemente collegata a una maggiore perdita di memoria nel tempo.
I dati di questo lungo studio longitudinale suggeriscono che la felicità può proteggere dal declino della memoria fisiologicamente correlato all’età. Naturalmente, si tratta di uno studio che si basa puramente sull’osservazione nel tempo dei percorsi spontanei delle persone coinvolte. Per capire davvero se la felicità sia in grado di causare cambiamenti, nella salute psicologica e fisica, sarebbe necessario manipolare i livelli di felicità dei partecipanti e misurare i risultati sulla salute; operazione che ha ovvie implicazioni di complessità progettuale e di proponibilità etica.
Ma è proprio questo che un altro studio del 2020 ha cercato di fare. Sono stati coinvolti 155 adulti; metà delle persone partecipanti sono state casualmente assegnate a ricevere un “trattamento di felicità”. Di cosa si trattava? Di beneficiare di un programma di 12 settimane di attività, progettate appositamente per aumentare la felicità. Ogni settimana, durante la durata del trattamento, i ricercatori chiedevano ai soggetti di valutare la propria salute fisica, gli stati d’animo generali e la propria soddisfazione esistenziale.
Le persone che avevano ricevuto il trattamento hanno riferito di aver sperimentato un numero superiore di emozioni positive e un numero minore di emozioni negative durante il percorso, oltre a dichiarare, in termini generali, una maggiore soddisfazione per la vita. Al contrario, il gruppo di controllo che non ha ricevuto alcun trattamento non ha mostrato segni di progresso.
Ma il trattamento per la felicità ha anche contribuito a migliorare la salute fisica? Alla fine del percorso, i partecipanti al trattamento avevano circa il 20% di probabilità in più, rispetto al gruppo di controllo, di avere una giornata in cui “si sentivano sani e pieni di energia”. Avevano anche un tasso di incidenza di circa il 30% in meno di riferire un giorno di malattia.
I ricercatori non sono però riusciti a trovare marcatori biologici affidabili alla base dei miglioramenti di salute auto-riferiti dalle persone (venivano misurati solo la pressione sanguigna e l’indice di massa corporea), il che conferma la complessità di una ricerca in questo campo, anche perché nello studio citato si utilizzava solo un gruppo di controllo passivo. Per uno studio più completo, come suggerisce Misirlisoy, occorrerebbe confrontare l’intervento sulla felicità con un intervento (difficile da progettare) che abbia funzione di placebo, per constatare se i risultati sono confermati anche nel caso in cui i partecipanti di entrambi i gruppi si aspettino di ottenere un beneficio.
In conclusione: se è ragionevole rimanere cauti nell’interpretare l’influenza della felicità sulla salute fisica delle persone, ci sono motivi per credere che il buon umore e la serenità siano essenziali per sostenere una biologia più sana e che i dati di studi e ricerche future, auspicabilmente ancora più rigorosi, grazie a metodi innovativi, possano confortare il buon senso comune: che sorridere di più, sentirsi a proprio agio e approfittare di ogni piccola risorsa di gioia faccia davvero bene a tutti noi.