L’abuso infantile: una chiave di lettura

Definizione

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’abuso infantile è “qualsiasi forma di maltrattamento fisico, emotivo, sessuale o di trascuratezza che si traduce in un danno reale o potenziale alla salute, allo sviluppo o alla dignità del bambino“. Stiamo quindi parlando di qualsiasi azione, o mancanza di azione, da parte di un adulto o di un’altra persona in una posizione di potere o fiducia, che causa danni fisici, psicologici o emotivi a un bambino.

I dati più aggiornati ci informano che circa 1 bambino su 5 potrebbe subire una qualche forma di abuso sessuale prima dei 18 anni. Si stima che circa 1 ragazza su 8 a livello globale abbia subito violenze prima dei 18 anni. Tra i ragazzi, circa 1 su 11 ha subito abusi nella sua infanzia. Rispetto allo scorso anno, l’ansa ci dice che nei soli primi sei mesi del 2024 abbiamo assistito ad un aumento del 10% di abusi sui minori rispetto al biennio 2022-2023. Gli autori delle violenze sono principalmente uomini, italiani, di età compresa tra i 35 ed i 64 anni (60%).

La difficoltà di parlarne

L’abuso infantile resta spesso silente in quanto costernato di vissuti di vergogna e colpa da parte delle vittime di abuso. Lo spunto di riflessione che vorrei lasciare in questo articolo riguarda la comprensione di come “noi altri”, professionisti della salute mentale, istituzioni, educatori e genitori contribuiamo a rendere il fenomeno ancora più silente e non individuabile.

In primis la lettura degli abusi come episodi sensazionalistici, ovvero perpetrati da individui “pazzi, malati, cattivi, poco vicini a noi persone per bene”, crea l’immagine rassicurante di un fenomeno non così diffuso e soprattutto lontano da noi. Crea inoltre l’aspettativa stereotipata di una vittima e un abusante che sono estremamente lontani dalla realtà e che ci permettono di cadere nella minimizzazione del fenomeno.

I media contribuiscono moltissimo a questo tipo di descrizione del fenomeno, utilizzando termini come “tragedia”, “nessuno poteva immaginarlo”, o anche ricalcando aspetti culturali come l’immigrazione, quando i dati riportano che più del 60% di chi commette reato di abusi su minori in Italia è di nazionalità italiana.

L’inefficacia degli interventi

Questo tipo di visione orienta anche gli interventi sul contrasto al fenomeno in una direzione inefficace, che predilige la messa in guardia delle vittime, piuttosto che l’educazione di tutti coloro che potrebbero diventare perpetratori di violenza. Ne deriva che è colpa della vittima, che non è stata troppo attenta, pensiamo ad esempio agli stupri di gruppo a carico di adolescenti minorenni di cui siamo stati spettatori negli ultimi fatti di cronaca; o anche allontanano dal riconoscimento precoce del fenomeno, con la focalizzazione verso stereotipi sbagliati, ad esempio quello dell’immigrazione, o dello status socio-economico dell’abusante. Infatti studi dimostrano che lo status socio-economico è un fattore poco correlato all’abuso di minori, rispetto a fattori psicologici differenti come: l’esposizione stessa ad abusi durante l’infanzia, la presenza di violenza familiare e lo stesso accesso alla pedopornografia. Tutti questi meccanismi di matrice culturale e non immediatamente visibile contribuiscono a silenziare il fenomeno, a renderlo taciuto.

Contribuiscono anche a ciò che viene chiamata vittimizzazione secondaria del minore abusato, ovvero quel fenomeno per cui la vittima di abuso sessuale, dopo aver denunciato, sperimenta ulteriore sofferenza a causa delle reazioni inadeguate o dannose da parte di istituzioni, famiglie, comunità o operatori coinvolti nel suo supporto. E nelle procedure altamente poco empatiche che vengono effettuate dagli operatori che lavorano in tale ambito, la visione culturale del fenomeno fa tanto nell’orientare il tipo di domande e i dettagli a cui si presta attenzione per sancire la veridicità dell’abuso.

Una possibile lettura dell’abuso infantile

Ieri una persona a me cara, discutendo di questo articolo e ben conoscendo le mie attività di sensibilizzazione. mi fa “ma dai Gaia, ma è possibile che è sempre tutta colpa del patriarcato?”. Fa sorridere anche me detta così.

Ma comprendere questo tipo di forme di abuso come la punta visibile dell’iceberg di una cultura basata su alcune specifiche caratteristiche, come la predominanza di un mondo centrato sull’adulto, maschile, è l’unico modo per orientare correttamente gli interventi in tal senso. Maschile non in un’ottica colpevolizzante e non maschile come genere, ma come simbolico, come predominanza dell’aggressività e del potere, in cui l’altro è assoggettato come prolungamento di sé e dei propri desideri, in cui prevale l’aggressività per raggiungere tutto e subito. E questo porta da un lato, a non investire su quelle forme preventive come l’educazione su temi relazionali, come l’educazione sessuale e al rispetto delle libertà dell’altro; e dall’altro lato porta alla normalizzazione e minimizzazione a protezione dell’abusatore, a non credere alla vittima, a non riconoscere il fenomeno precocemente perché nella nostra mente prevale uno stereotipo di vittima e uno stereotipo di abusatore.