L’accettazione, questa strana sconosciuta.
L’accettazione, questa strana sconosciuta.
La maggior parte dei pazienti, quando arriva in studio per le prime sedute, parte raccontando con rabbia e frustrazione la condizione di vita in cui si trova. Ascolto analisi psicosociali accurate del comportamento dell’altro-carnefice: i genitori, i partner, un amato, un lutto. La principale domanda è: perché a me?
Emerge infatti, che molto tempo della giornata e della sintomatologia si aggira attorno al disperato tentativo di rispondere a questa domanda: perché a me. Da qui partono pensieri ruminativi volti a ripercorrere il momento decisivo, l’azione precisa, in cui è crollato il castello felice. Quale errore, quale parola, quale reazione ha scatenato quell’evento.
Tutto ciò nasconde un qualcosa di importante, che è la pretesa e la credenza di poter controllare eventi di per sé incontrollabili, principalmente i desideri di altre persone, eventi esterni e accidentali. Quando tocchiamo il tasto dell’incontrollabilità degli eventi, emerge una sensazione di sopraffazione e di impotenza, che è difficile da contattare e tollerare. <<E quindi cosa devo fare?>>
Accettare, rispondo io. È qui la nota dolente.
Che cosa vuol dire accettazione?
Accettare sembra un concetto appartenente alla filosofia orientale, ben diversa da noi. Nella nostra cultura, dove preme l’esaltazione di caratteristiche quali la testardaggine, la perseveranza, il sacrificio volto alla produzione; accettare è appannaggio di religione e spiritualità. Quelle situazioni un po’ strane da ritiro nella foresta, in silenzio, monacale. Accettazione viene spesso percepita, infatti, come una modalità passiva di affrontare le cose. Accetto, amo e perdono tutto ciò che mi accade: una sorta di porgi l’altra guancia.
Accettazione è, invece, quanto più diverso ci sia da questo. Trovo che sia la più attiva e coraggiosa delle scelte: una ridefinizione di confini entro cui recuperare le proprie risorse, e agire. Vuol dire aprirsi a sperimentare pienamente la realtà così com’è in questo momento, smettendo di combatterla, o di respingerla.
Accettazione non è, infatti, approvazione. Io posso accettare anche ciò che non approvo, e Marsha Linehan (2015, p.504) su questo fa un esempio molto indicativo: Un uomo si trova in carcere con una condanna a vita per un crimine che non ha commesso. È ricorso in appello, non ha soldi e non ha risorse per assumere un bravo avvocato. Per lui è fondamentale accettare che il carcere sarà la sua nuova casa per sempre, anche se non approva questa condizione. Se non accetta tale realtà, non potrà adattarsi al carcere, e apprendere le nuove abilità necessarie per sopravvivere in tale ambiente, né ottenere ciò che di buono questo può offrire. Adirarsi e combattere il sistema può interferire con il problem solving e portare ad un maggior numero di punizioni dal contesto. Rimanere disteso sulla propria branda, rassegnarsi e arrendersi, può essere altrettanto problematico e portare a punizioni e ritorsioni.
L’accettazione è quindi l’unico vero primo passo per riuscire ad agire in modo efficace, prendendo chiara evidenza della realtà così com’è.