
Il lavoro come rifugio: il lato invisibile delle ferie

Per alcune persone, l’arrivo delle ferie non è un momento di sollievo. Anzi: è proprio lì che comincia l’ansia. Staccare la spina può incutere timore. Non solo per ragioni pratiche, come chiedersi chi si occuperà delle proprie mansioni, ma anche perché il lavoro, molte volte, rappresenta più di un semplice impegno: è anche un rifugio emotivo.
Un luogo conosciuto, prevedibile, dove sentirsi utili, competenti, occupati. Dove non si rischia il vuoto.
È qui che può affacciarsi, con discrezione, il tema del workaholism, o dipendenza da lavoro. Un termine usato per descrivere una relazione sbilanciata e compulsiva con l’attività lavorativa, in cui la difficoltà non è tanto il lavorare troppo, ma l’incapacità di fermarsi.
Il lavoro come unico posto sicuro
Spesso, dietro un apparente “attivismo” o una produttività fuori misura, si nasconde una verità meno visibile: il lavoro può diventare una forma di regolazione emotiva. Può diventare un modo per placare l’ansia, riempiendo ogni minuto: una strategia per evitare conflitti, silenzi, o relazioni complesse, oppure una scorciatoia per non confrontarsi con la noia, con la solitudine, con sé stessi.
In questi casi, il lavoro non è più solo lavoro. Diventa identità, appartenenza, controllo, salvezza. E paradossalmente, più si lavora, più si rischia di perdere il contatto con i propri bisogni più autentici, quelli che non si misurano in risultati o prestazioni.
Perché le ferie fanno emergere il disagio
Quando arriva il momento di fermarsi, tutto quello che era stato “anestetizzato” dall’iperattività può improvvisamente tornare a galla:
- L’irrequietezza nei momenti vuoti;
- Il senso di colpa nel non essere produttivi;
- La difficoltà a rilassarsi, anche in vacanza;
- Il bisogno di “fare qualcosa” anche durante il riposo.
Le ferie, spesso considerate da molti un momento di rigenerazione, possono invece trasformarsi per alcuni in una causa di disagio, insicurezza o confusione. Il corpo magari si siede, ma la mente resta in corsa. E così si finisce per controllare email, pensare al rientro, aprire un nuovo progetto, “per non perdere il ritmo”.
Il confine tra dedizione e dipendenza
È importante chiarire che non tutto l’impegno lavorativo è disfunzionale. Ci sono momenti della vita in cui essere immersi nel lavoro è anche una scelta, una passione, una risposta a un bisogno concreto. Ma il workaholism ha una qualità diversa: non lascia spazio ad altro.
Non concede tregua, non ammette pause, e porta a sentire disagio ogni volta che si è lontani dal proprio ruolo. Si lavora anche quando si è stanchi, malati, in ferie. Si prova colpa nel non lavorare. Si vive come se il valore personale dipendesse solo da quanto si produce. E più si entra in questo schema, più diventa difficile vedere il mondo, e sé stessi, fuori da quella cornice.
Riscoprire la possibilità di fermarsi
Fermarsi non è un lusso, è un diritto psicologico. Ed è anche un’esplorazione: una possibilità di ritrovare il senso del tempo vuoto, dell’attesa, della lentezza. Non è semplice, soprattutto se si è cresciuti in contesti dove il valore personale veniva associato al fare, al dare, all’ottenere risultati. Ma è possibile, un passo alla volta. Può essere utile iniziare da piccole cose:
- Concedersi momenti non “utili”, solo piacevoli;
- Imparare a dire no senza giustificarsi;
- Notare come ci si sente nei momenti in cui non si lavora, senza giudizio;
- Parlare di questa fatica, magari con un professionista, per dare nome e spazio a un malessere che spesso resta invisibile.
Conclusione
A volte, dietro il bisogno di essere sempre occupati, c’è un bisogno ancora più profondo: quello di essere visti, accolti, riconosciuti. Non per ciò che si fa, ma per ciò che si è. Le vacanze, se affrontate con consapevolezza, possono trasformarsi in un’opportunità per ascoltare sé stessi, creare spazio mentale e ridefinire il proprio rapporto sia con il lavoro che con la propria interiorità. Non serve fare grandi rivoluzioni, basta iniziare con una domanda semplice e onesta: “Cosa mi sto perdendo, mentre continuo a lavorare senza fermarmi?”