L’insicurezza del lavoratore
di Veronica Sarno
Le organizzazioni mostrano un interesse crescente verso forme di contratto a termine (Hellgren, 2000). La globalizzazione ha indotto le aziende a doversi rendere sempre più flessibili, a causa della forte competizione e dei costi del lavoro, che l’azienda tenta di ridurre, attuando processi di rimpicciolimento dei diritti dei lavoratori e/o deterioramento delle condizioni lavorative (Nixon, 1994); questo cambia la natura del lavoro anche per chi ha mantenuto il posto, in quanto aumenta il carico di lavoro pro capite, ed una conseguente incertezza del lavoratore relativa alla propria performance (Nelson, 1998); i cambiamenti organizzativi introducono quindi nei lavoratori un senso di insicurezza, che si esprime nella preoccupazione riguardo l’esistenza futura del proprio lavoro (Ruvio, 1996), nella percezione di una potenziale minaccia alla continuità della propria attività professionale (House, 1994), nelle aspettative professionali di continuità della propria mansione (Davy, 1997); a cui si aggiunge un mercato del lavoro poco attivo che non consente facili transizioni lavorative. L’incertezza del lavoratore è in continuo aumento, si genera in sicurezza lavorativa, espressione usata da Hellgren (2002), per indicare le reazione negative dei lavoratori a tutti questi cambiamenti che investono il loro lavoro, al senso di impotenza nel mantenere la continuità in una situazione lavorativa, sino ad arrivare alla paura della perdita totale del lavoro.
Rosenblatt (1984) considera l’insicurezza lavorativa un costrutto complesso multidimensionale, che include la combinazione di minacce al lavoro in sé, le minacce alle caratteristiche reputate importanti del lavoro, il senso di impotenza nel contrastare tali minacce e l’importanza complessiva del lavoro.
Rubio (1999) reputa che gli effetti dell’insicurezza lavorativa, varino in base al genere, gli uomini avvertono il senso di minaccia soprattutto sul versante economico e mostrano effetti negativi riguardo al coinvolgimento organizzativo e sviluppano piuttosto velocemente l’intenzione di abbandonare quel lavoro; le donne manifestano maggiormente la propria insofferenza con una diminuzione della propria performance e sentono meno supporto organizzativo.
Tuttavia, le differenze individuali possono cambiare la percezione di insicurezza lavorativa. Secondo Hartley (1991) i fattori che incidono sulla diversa percezione di insicurezza lavorativa sono i seguenti:
a) Differenze individuali;
b) Equità;
c) Sostegno.
Fournier (1993) invece reputa che ad incidere sulla percezione di insicurezza lavorativa siano il:
- Locus of control;
- Bisogno di sicurezza;
- Centralità lavoro.
Secondo Pozner (1980) la possibilità di partecipare alle decisioni modera inoltre l’effetto dello stress legato al ruolo lavorativo, in quanto i lavoratori esperiscono un senso di controllo sulle proprie condizioni. Tuttavia, è stato riscontrato che le reti di sostegno sociale non lavorative (come famiglia e amici) hanno un effetto positivo nella relazione tra insicurezza e insoddisfazione per la propria vita, mentre le reti lavorative fungono da cuscinetto contro gli effetti negativi dell’insoddisfazione per il proprio lavoro, della ricerca proattiva di impiego e dei comportamenti lavorativi non conformi alle norme (Lim, 1996). Hartley (1991) ha definito l’insicurezza lavorativa come la discrepanza tra il livello di sicurezza esperito dal lavoratore e il livello che invece preferirebbe. Un senso continuo e minaccioso di insicurezza logora psicologicamente un lavoratore e parallelamente subentrano malesseri fisici, si può assistere ad una sintomatologia simile e a quella identificata per lo stress da lavoro correlato ed al burn-out, il fattore più significativo risiede nella diminuzione della soddisfazione per il proprio lavoro Moore e Greenberg (1998), e nel conseguente desiderio di cambiare lavoro e trovarne uno dalle caratteristiche migliori.
La crescente ed attuale dinamicità del mondo del lavoro esige dalle persone coinvolte di mostrarsi sempre più malleabili ed adattabili alle esigenze della situazione.
Hall (2002) ha coniato a questo proposito il concetto di carriera proteiforme, che consiste in una forte elasticità e capacità da par te del lavoratore di gestire molteplici identità e ruoli lavorativi, in contrasto con la concezione tradizionale di carriera che risponde a un contratto di tipo paternalistico tra datore di lavoro e lavoratore, la realtà del lavoro attuale mette l’ individuo di fronte ad un’esperienza di carriera autogestita e senza confini precisi, composta da differenti posizioni all’interno di più organizzazioni entra in gioco la necessità di negoziare un numero sempre più ampio di transizioni di ruolo.
La capacità di tollerare i cambiamenti e di adattarsi è indispensabile, e se presente rende l’individuo proattivo di riuscire a migliorare la propria vita, cercando continuamente nuovi e migliori lavori, che però sono molto difficili da trovare.
Fugate (2004) conia il costrutto di impiegabilità, che sposta la responsabilità per lo sviluppo di carriera dal datore di lavoro al lavoratore. L’impiegabilità è considerata una forma di adattabilità lavorativa attiva che consenta ai lavoratori di concretizzare le opportunità di carriera che si possano loro presentare, facilitando la mobilità all’interno di un’organizzazione e tra più organizzazioni e di conseguenza aumentando le probabilità di impiego di un individuo. Il costrutto di impiegabilità si fonda principalmente sui concetti di adattabilità attiva e proattività. Per il lavoratore che intende cambiare azienda devono affrontare una transizione, confrontandosi attivamente col proprio ambiente di lavoro, mentre ricerca informazioni adeguate sull’ambiente lavorativo, sullo status del lavoratore e sulle sue relazioni al l’interno del l’ambiente stesso, ma devono anche possedere una disposizione adeguata all’adattamento, ottimismo e senso di autoefficacia e schemi cognitivi che consentano di affrontare la sfida di un cambiamento, soprattutto i lavoratori devono mostrarsi flessibili e in grado di modificare cognizioni, affetti e comportamenti qualora se ne presentasse la necessità.
Fugate (2004) parla di identità di carriera: la definizione di sé in un contesto lavorativo in termini di “chi sono/chi voglio essere” che può motivare l’individuo ad adattarsi per raggiungere o creare le opportunità che coincidono con le proprie aspirazioni; le informazioni raccolte sull’ambiente lavorativo devono essere infatti rilevanti per un’identità saliente. Gli individui proattivi hanno minori difficoltà ad adattare la situazione lavorativa ai propri bisogni, mostrandosi inclini ad apprendere e a sfruttare attivamente ogni elemento in grado di modificare la situazione in modo da raggiungere l’identità desiderata sul piano lavorativo; sono avvantaggiati anche perché sono più flessibili nel modificare cognizioni e comportamenti al fine di ottimizzare sia la situazione che gli outcome prevedibili (Fugate et al., 2004). Inoltre, l’orientamento proattivo ha un effetto positivo anche sul senso di incertezza, perché percepiscono maggiore controllo sulla situazione, perché si percepiscono in grado di identificare un ampio spettro di alternative di carriera e raggiungere quelle a cui sono interessati. Markus (1999) ha detto che l’attenzione di sposta dalle possibilità di carriera a sé desiderabili ed indesiderabili, che infine orientano le scelte di carriera, alla ricerca di aspetti di carriera del sé desiderabile, tuttavia, le identità di carriera non sono facilmente inseribili in qualche etichetta, ma necessitano di una forma narrativa, che consenta di fornire maggiore continuità ed attribuire molteplici e differenti significati, in questo modo è possibile mettere in evidenza le tematiche preferite dall’individuo e tralasciare le incoerenze in un secondo piano.
Secondo Fugate (2004) narrare della propria identità di carriera diviene dunque un mezzo mediante il quale un lavoratore possa costruire il proprio valore sia ai suoi occhi, sia agli occhi di altri individui significativi; in più l’identità di carriera si riflette inoltre sullo stile di identità di un individuo: gli individui con un orientamento informativo tendono a cercare e utilizzare in modo proattivo le informazioni rilevanti per il sé, gli individui con un orientamento normativo tendono invece a conformarsi alle aspettative altrui, mentre chi ha un orientamento evitante cerca di non riflettere sulla propria immagine di sé (Berzonsky, 1990).
Secondo Stokes (1996) l’ottimismo è una qualità fondamentale nel contesto lavorativo, in quanto consente di valutare i cambiamenti come esperienze di apprendimento dal valore intrinseco, i lavoratori ottimisti percepiscono più opportunità sul posto di lavoro e tendono a perseguire i propri obiettivi, orientando la propria carriera in modo attivo e adattivo.
Oltretutto, un processo di apprendimento costante è stato più volte indicato come uno dei fattori chiave per il raggiungimento del successo nella propria carriera (Hall e Mirvis, 1995).
Digman (1990) ha sottolineato che la predisposizione all’apertura risulta un aspetto centrale dell’adattabilità individuale, in quanto un lavoratore aperto non rifiuta le nuove esperienze, bensì si mostra flessibile per affrontare l’incertezza e ha un atteggiamento favorevole verso gli eventi che innescano un cambiamento sul lavoro. Inoltre, accettare i cambiamenti risulta associato positivamente alla soddisfazione per il proprio lavoro e negativamente all’intenzione di abbandonarlo (Wanberg e Banas, 2000), oltre a fornire un supporto in situazioni di incertezza e a migliorare la disponibilità e l’efficienza del training indipendentemente dall’occupazione.
Secondo Skinner (1996) la percezione di locus interno, induce gli individui a credersi capaci di influenzare il corso degli eventi che li riguardano, al contrario di quanto accade per chi percepisce un locus esterno, inoltre, l’adattabilità individuale trova fondamento anche nella percezione di autoefficacia, ovvero la percezione di essere in grado di portare a termine una performance positiva e di gestire con successo gli eventi della propria vita (Bandura, 1997). L’autoefficacia, infatti, influenza direttamente la percezione di adattabilità di un individuo e di conseguenza ne aumenta la determinazione in situazioni di emergenza ed incertezza. Fugate (2004) ha messo in evidenza che il senso dell’autoefficacia percepita promuova il senso di adattabilità indipendentemente dalla posizione lavorativa o dal tipo di transizione.
Bibliografia e sitografia
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- Burke, R.J., & Nelson, D. (1998). Mergers and acquisitions, downsizing, and privatization: A North American perspective. In M.K. Gowing, J.D. Kraft, & J.C. Quick (Eds.), The new organizational reality: Downsizing, restructuring, and revitalization (pp. 21–54). Washington, DC: American Psychological Association.
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