Mind Blinding, Empatia e Autismo.
di Ilenia Gregorio
Il “Mind blinding” è l’incapacità di comprendere lo stato mentale altrui.
Ma qual è il fattore che porta a tale difficoltà nei soggetti affetti di autismo?
Inizialmente si pensava che il problema principale fosse una inabilità del soggetto autistico di sviluppare la Teoria della Mente, ovvero la capacità di comprendere da un lato lo stato cognitivo (cosa sta pensando), e dall’altro lo stato affettivo (cosa sta provando) di una persona con cui si vuole interagire. Queste due componenti ci permettono di rapportarci adeguatamente con gli altri e con il mondo circostante. I soggetti con autismo, però, non riescono ad interpretare le informazioni sociali e da ciò deriva l’incapacità di riuscire a comprendere gli stati mentali dei pari: aspetto che viene definito “Mind blinding” e che comporta, come conseguenza, serie difficoltà relazionali.
Successivamente la ricerca ha esteso il concetto della Teoria della Mente (definita anche come empatia cognitiva) alla capacità di empatizzazione (o empatia affettiva), ovvero la capacità di riconoscere lo stato mentale altrui e avere una reazione emotiva appropriata ai sentimenti dell’altro. Si è visto infatti che bassi livelli di capacità empatiche negli autistici sono i responsabili delle loro difficoltà a livello relazionale. Un dibattito che ha portato alla formulazione del “double-empathy problem” (Milton et al., 2022 ) ovvero l’assunto che ci sia una bidirezionalità nella non-comprensione di aspetti sociali tra soggetti autistici e soggetti normotipici. Il problema potrebbe riflettere il fatto che non riuscendo a comprendersi l’uno con l’altro finiscano per escludersi a vicenda. Il soggetto autistico così rimarrà sempre più isolato, e non gli sarà concesso di condividere e imparare i comportamenti dei normotipici.
Il “double-empathy problem” inoltre sottolinea il fatto che soggetti autistici e normotipici hanno degli stili comunicativi differenti e per questo motivo non riescono a comprendersi vicendevolmente. Quindi l’errore non risiede solo nella persona autistica, perché semplicemente questa ha delle regole differenti, e personali, per codificare ciò che vede (e ciò che non vede) che però non corrispondono alle le regole che generalmente ognuno di noi utilizza per far fronte al mondo sociale. È come se la persona autistica riconoscesse e riuscisse a stare dentro il mondo autistico che però non è conforme al mondo normotipico. Lo stesso ragionamento viene fatto per un soggetto normotipico, che ha delle regole che non gli permettono di riconoscere ciò che si cela dietro il mondo dello spettro autistico (Mitchell et al., 2021).
Ad ogni modo, dire che un soggetto autistico “manca di empatia” non è totalmente esatto; l’empatia autistica non è quindi una contraddizione.
“Nella ricerca [scientifica] non c’è una definizione standard e concordata di empatia”.
Nonostante i grandi passi in avanti fatti nella conoscenza dei disturbi dello spettro autistico, sia da parte della comunità scientifica che nella consapevolezza del grande pubblico e dei professionisti sanitari, ci sono alcune etichette e semplificazioni che faticano a scollarsi. Ad accomunarle, la tendenza a trattare le diversità come deficit e raramente come differenze, concentrando su questo l’intera narrazione. Tra queste diversità campeggia proprio l’empatia e la convinzione ancora radicata in molti, che chi è nello spettro ne sia privo, incapace di mettersi nei panni del prossimo, di comprenderne stati d’animo, emozioni, sensazioni e di comportarsi di conseguenza.
Ci troviamo sicuramente di fronte ad un approccio spesso de-umanizzante ma che si fatica ad abbandonare, nonostante negli ultimi anni sia stato frequentemente messo in discussione, anche perché pone sotto lo stesso “ombrello” tutte le persone autistiche senza tener conto della grande diversità che appunto caratterizza uno spettro. Oggi sappiamo che, così come per le persone neurotipiche, non vi sono due autistici uguali tra loro.
Per capire meglio il concetto di empatia, è utile dividerla in tre stadi o momenti differenti:
1. Il primo riguarda la capacità di notare che una persona sta provando qualcosa
2.il secondo si riferisce al saper identificare di cosa si tratta
3. il terzo riguarda l’idoneità a “reagire” in un modo considerato opportuno.
Per gli standard neurotipici, questo significa provare gli stessi sentimenti, immedesimarsi, condividere sensazioni e farlo in un modo che sia adeguato ed evidente all’altra persona. Notare gli indizi sociali tipici nel comportamento o su un volto può essere a volte complicato per un autistico/a, di qualunque età, dunque già al primo punto incontriamo qualcosa sul quale soffermarsi. Seguito, al punto due, da una difficoltà che accomuna molte persone nello spettro: riconoscere e identificare le emozioni altrui (ma anche le proprie). “Quella risata è felice o è, sarcastica? Sta piangendo per la tristezza o per la gioia”? A questo punto, resta “solo” da manifestare una reazione adeguata.
Ma le risposte ai segnali emotivi altrui sono pesantemente dettate da norme e aspettative sociali, definite per necessità dalla maggioranza non autistica. Ed ecco un altro punto per il quale gli autistici potrebbero dall’esterno sembrare poco empatici quando in realtà, semplicemente, nella loro reazione non seguono lo stesso ‘copione’ di una persona neurotipica. Ragionando in questi termini, già il cosiddetto deficit di empatia diventa semplicemente un modo diverso di comprendere, interpretare e reagire all’esperienza e al sentire del prossimo.
Bisogna quindi, ripensare l’empatia. C’è ancora molto da fare per valutare la bidirezionalità dell’empatia, ma gli studi che mostrano le difficoltà dei neurotipici nell’attribuire stati mentali agli autistici sono già un cambiamento di paradigma positivo.
Ed è proprio sulla Bidirezionalità che dobbiamo soffermarci: e se si trattasse, per l’appunto, di un problema di comprensione tra persone che vivono il mondo che le circonda in modo diverso, una difficoltà che rende l’empatia – così come la comunicazione – difficile da parte di un neurotipico verso un autistico esattamente come da parte di un autistico verso un neurotipico? Questo aspetto, come anticipato in diversi studi e all’inizio di questo articolo, è già emerso: per una persona neurotipica, comprendere gli stati mentali di una autistica e leggerne le emozioni non è banale e si parla nello specifico di mind blindness (o mind blinding).
Lo stesso Damian Milton, autore di numerosi studi in merito, oltre ad avere un punto di vista dall’interno, in quanto autistico, è noto nell’ambiente per il suo lavoro sulla teoria del double empathy problem: quando due persone con esperienze del mondo profondamente diverse interagiscono, è difficile che possano provare empatia reciproca come la intendiamo oggi. Le evidenze scientifiche che già abbiamo su questa “incomprensione” tra neurotipici e autistici, suggeriscono che le teorie psicologiche dominanti sull’autismo siano, nel migliore dei casi, “parziali”.
Bibliografia
Fletcher-Watson, S., & Bird, G. (2019). Autism and empathy : what are the real links ? Autism, (September), 1–4. https://doi.org/10.1177/1362361319883506
Kanner, L. (1943). Autistic disturbances of affective contact. Nervous Child, 2(3), 217–250
Milton, D., Gurbuz, E., & Lopez, B. (2022). The ‘double empathy problem’: Ten years on. In Autism (Vol. 26, Issue 8, pp. 1901–1903). SAGE Publications Ltd.
Milton, D.; Ridout, Susy; Martino, Nicola; Mulini, Richard; Murray, Dina (2020). Il lettore della neurodiversità: esplorazione di concetti, esperienza vissuta e implicazioni per la pratica
Mitchell, P., Sheppard, E., & Cassidy, S. (2021). Autism and the double empathy problem: Implications for development and mental health. British Journal of Developmental Psychology, 39(1), 1–18.