
Non la sostanza, ma il legame: una lettura sistemica della dipendenza

Cosa spinge una persona a rifugiarsi in una sostanza, in un comportamento compulsivo, in un’abitudine che diventa gabbia? Troppo spesso rispondiamo con concetti individualizzanti: fragilità, mancanza di volontà, bisogno di evasione. Eppure, in un’ottica sistemico-relazionale, la dipendenza racconta molto di più: si presenta come un tentativo di regolare la distanza emotiva, di dare voce a un dolore relazionale, di mantenere in equilibrio un sistema che non sa come comunicare. In tal senso, dunque, la dipendenza, non è solo un problema da risolvere, ma una forma di legame. E come ogni legame, può essere compresa solo all’interno delle relazioni che la generano e la sostengono. Quando si parla di dipendenze, il pensiero corre subito alla sostanza, al corpo che chiede, ciò di cui non si riesce più a fare a meno. Ma chi lavora in ambito clinico sa che dietro ad un comportamento compulsivo si cela un tentativo di dare forma a un dolore.
La sostanza come “mediatore affettivo”
Secondo la visione ecologica di Gregory Bateson, il comportamento dipendente viene definito come un atto comunicativo che svolge una funzione all’interno del sistema di appartenenza. Più che un segno di malattia, diventa un tentativo, spesso disperato, di mantenere coerenza e legame. Ogni comportamento ha, infatti, una funzione comunicativa e contestuale: è dentro il sistema che acquista un senso.
Spesso la sostanza o il comportamento dipendente di qualsivoglia natura (gioco, cibo, tecnologia) entra in scena come “elemento terzo” in una relazione bloccata. E’ un modo per comunicare un bisogno, per proteggersi da un coinvolgimento troppo intenso o per colmare una mancanza che il sistema non è in grado di fronteggiare apertamente. In questo senso, la dipendenza non è solo individuale, ma è una soluzione relazionale (Watzlawick, Beavin & Jackson, 1967). Il sintomo diventa parte dell’equilibrio del sistema, anche quando porta dolore. È un linguaggio che ha senso solo se letto nella grammatica emotiva del sistema in cui si manifesta (Satir, V., 2019).
Famiglie che “funzionano” intorno al sintomo
In terapia capita di osservare dinamiche in cui il sintomo diventa centrale nella vita familiare. Tutti ruotano attorno alla dipendenza: chi cerca di controllarla, chi la nega, chi se ne sente responsabile. Il sistema si organizza intorno a essa, talvolta in modo invisibile. Sembrerebbe dunque che si sviluppano nuovi equilibri familiari in cui il sintomo funge da stabilizzatore. È qui che il lavoro dello psicoterapeuta sistemico-relazionale entra in gioco, spostando il focus dal comportamento “disfunzionale” alla funzione che quel comportamento svolge nel sistema stesso. (Lane & Ray, 1994). Il pensiero sistemico richiede, dunque, un cambio di prospettiva: non è l’individuo l’unità di analisi, ma la relazione. Come diceva Bateson, “l’unità evolutiva non è l’organismo, ma l’organismo-nel-suo-ambiente”. Allo stesso modo, il sintomo non è “nella persona”, ma nel sistema di significati e interazioni in cui quella persona è immersa. Questo approccio permette di vedere come la dipendenza possa funzionare come regolatore del sistema: mantiene distanze, copre conflitti, stabilizza ruoli. In alcune famiglie, il “problema” della dipendenza diventa il centro attorno al quale tutto ruota, consentendo paradossalmente al sistema di non affrontare altri nodi irrisolti.
Curare il legame, non solo il sintomo
Intervenire sulla dipendenza significa allora creare uno spazio di ascolto, dove il sintomo possa raccontare la sua storia. È necessario dare voce al dolore sottostante, ma anche comprendere quali relazioni lo sostengono e come trasformarle. Questo può significare coinvolgere il partner, i genitori, i figli, o semplicemente portare in seduta le storie di attaccamento, le aspettative familiari, le emozioni, i non detti (Cigoli & Scabini, 2000). La domanda che guida l’intervento non è “perché sei dipendente?”, ma “a che cosa serve questa dipendenza nel tuo mondo relazionale?”, “quali bisogni cerca di colmare?”, “quali ruoli sostiene o impedisce di trasformare?”.
Il percorso terapeutico non punta solo all’astinenza, ma alla possibilità di costruire nuovi modi di stare in relazione con sé e con gli altri. Quando il legame diventa nutriente, autentico, non più giudicante o fuso, la dipendenza può iniziare a perdere la sua forza. Come ci ricorda Bateson (1979), il cambiamento non avviene agendo sull’individuo, ma trasformando le differenze nelle relazioni e nei significati che le governano.
Bibliografia
- Bateson, G. (1972). Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi
- Cecchin, G., Lane, G., & Ray, W. A. (1994). L’arte del terapeuta. Roma: Astrolabio.
- Cigoli, V., & Scabini, E. (2000). Il legame di attaccamento. Uno sguardo sistemico-relazionale. Milano: Raffaello Cortina.
- Satir, V. (1972). Peoplemaking. Palo Alto: Science and Behavior Books.
- Watzlawick, P., Beavin, J. H., & Jackson, D. D. (1967). Pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio.