
Solitudine tra dolore e cura: la complessità dell’isolamento volontario
di Vincenzo Martone

Ti è mai capitato di sentire il bisogno di stare solo, anche quando tutto intorno ti spingeva a fare il contrario? A me sì. E quando capita, mi torna spesso alla mente una frase di Jessica Lange, che in un’intervista disse:
“Ho sempre vissuto con la solitudine. Ma non mi sono mai annoiata.” È davvero possibile che una condizione dalle mille sfaccettature, come la solitudine, tanto temuta in un mondo che è sempre più connesso, possa diventare uno spazio fertile, addirittura curativo?
In questo articolo esploriamo cosa dicono le neuroscienze su solitudine, isolamento sociale
e fenomeni estremi come quello degli hikikomori. Scopriremo che non tutta la solitudine fa
male – e che, in certi casi, può perfino salvarci.
Solitudine e dell’Isolamento Sociale: cosa ci dicono le neuroscienze?
Diversi studi, di stampo neuroscientifico, hanno dimostrato che l’esclusione sociale,
l’isolamento autoimposto (o quello subìto) e la solitudine sono associate all’attivazione delle
stesse aree cerebrali implicate nel dolore fisico. In particolare, si è osservata un’attivazione
della corteccia cingolata anteriore e dell’insula anteriore, le stesse aree coinvolte nel
dolore affettivo, in studi come, ad esempio, quello di Eisenberger et al. (2003), i quali hanno
mostrato come l’esclusione simulata da un gioco attivi queste aree del cervello 1 . Altri studi,
come quello di Kross et al. (2011), hanno altresì dimostrato che pensare ad un’esperienza
dolorosa di rifiuto, attiva anche la corteccia somatosensoriale secondaria e l’insula
posteriore, normalmente associate al dolore fisico.
Anche l’amigdala, parte del sistema limbico coinvolta nella risposta alla minaccia e all’ansia sociale, risulta frequentemente iperattiva nei soggetti che sperimentano solitudine cronica. Quando la solitudine è scelta volontariamente, si è però notato che gli effetti possono essere benefici. Essa consente uno spazio per la riflessione, la creatività e l’equilibrio mentale. A livello cerebrale, questa condizione è stata associata all’attivazione della rete neurale che compone il Default Mode Network (DMN) – un insieme di regioni (come la
corteccia prefrontale mediale e il cingolato posteriore) che si attivano durante stati di riposo
e profonda introspezione.
Difatti, studi recenti hanno evidenziato che brevi periodi di solitudine volontaria favoriscono l’attività riflessiva e migliorano l’umore e la creatività, proprio grazie al coinvolgimento del DMN 5 – diversamente, periodi prolungati di attivazione di questa rete rappresentano la presenza di un stato psicologico alterato, come ad esempio l’umore depresso.
Hikikomori: La Solitudine Patologica
Quando si indaga la solitudine, non si può fare a meno di menzionare il fenomeno degli
hikikomori, il quale rappresenta un caso estremo di isolamento sociale (non) scelto.
Originariamente osservato in Giappone, è oggi presente anche in molti paesi occidentali.
Con il suddetto termine, ci si riferisce a giovani (prevalentemente uomini) che si ritirano dalla
vita sociale per mesi o anni, spesso vivendo isolati nella propria stanza. Le cause includono,
per la maggiore, ansia sociale, pressione scolastica e disadattamento culturale – è
quindi una risposta indotta da condizioni esterne.
Studi epidemiologici stimano una prevalenza del 1–2% tra i giovani giapponesi 7 . La maggior
parte presenta comorbidità psichiatriche (disturbi dell’umore, ansia sociale, spettro
autistico), e il loro isolamento è vissuto come doloroso e reattivo, non come introspezione
benefica 8-9 .
Di conseguenza si possono ritrovare, fattori culturali e tecnologici (come l’iperconnessione
digitale e il ritiro nella vita online), i quali giocano un ruolo chiave nell’insorgenza del
fenomeno 10 .
Solitudine vs. Isolamento: Il Punto di Vista di Jessica Lange
In un’intervista rilasciata nel 2015 al programma DP/30: Emmy Watch, l’attrice Jessica
Lange ha dichiarato: “Lonely? That’s a condition I’ve been livied my whole life. But bored?
no.” (“Sono sempre stata una persona solitaria. Ma non mi sono mai annoiata.”) 11 . Questa
frase può definire una sorta di punto di arrivo alla consapevolezza dei propri stati
enterocettivi: perché ci insegna che l’isolamento indesiderato (come nel dolore del rifiuto
sociale o negli hikikomori) può ferire, ma la solitudine scelta può persino curare. È uno
spazio fertile dove si coltivano consapevolezza, creatività e benessere.
Tecniche come la mindfulness e la meditazione, ampiamente usate per la gestione dell’ansia
e della depressione, si basano proprio sulla valorizzazione del tempo in solitudine, come
risorsa per ritrovare sé stessi.
Cosa si può fare nelle situazioni cui si percepisce un forte isolamento?
- Impara a distinguere isolamento e introspezione: Se senti che la solitudine ti
svuota anziché nutrirti, parlane con qualcuno di fiducia o con un professionista. Non
temere l’aiuto
- Dedica tempo alla creatività: Scrivere, disegnare, camminare o anche solo
osservare il paesaggio in silenzio può aiutare a trasformare la solitudine in occasione
di contatto con sé stessi. - Riconosci i tuoi bisogni relazionali: Volersi bene significa anche sapere quando si
ha bisogno degli altri. - Accetta la solitudine come condizione umana: Ogni persona sperimenta momenti di solitudine. Accoglierla senza giudizio può renderla meno spaventosa.
- Coltiva un rituale personale: Anche 10 minuti al giorno per una pratica riflessiva (meditazione, yoga, pilates, …) possono cambiare il nostro modo di “essere soli”.
In Sintesi
Tutto dipende dal valore che scegliamo di attribuire alla solitudine: se come rifugio o come
prigione. Ed è qui che entra in gioco la salute mentale, sempre frutto di una complessa
interazione tra genetica e ambiente.
Bibliografia:
- Eisenberger, N. I., Lieberman, M. D., & Williams, K. D. (2003). Does Rejection Hurt?
An fMRI Study of Social Exclusion. Science, 302(5643), 290–292. - Kross, E., Berman, M. G., Mischel, W., Smith, E. E., & Wager, T. D. (2011). Social
rejection shares somatosensory representations with physical pain. PNAS, 108(15),
6270–6275. - Cacioppo, J. T., et al. (2009). In the Eye of the Beholder: Individual Differences in
Perceived Social Isolation Predict Regional Brain Activation to Social Stimuli. Journal
of Cognitive Neuroscience, 21(1), 83–92. - Andrews-Hanna, J. R. (2012). The Brain’s Default Network and Its Adaptive Role in
Internal Mentation. The Neuroscientist, 18(3), 251–270. - Fox, M. D., et al. (2005). The human brain is intrinsically organized into dynamic,
anticorrelated functional networks. PNAS, 102(27), 9673–9678. - Zhou HX, Chen X, Shen YQ, Li L, Chen NX, Zhu ZC, Castellanos FX, Yan CG.
Rumination and the default mode network: Meta-analysis of brain imaging studies
and implications for depression. Neuroimage. (2020) Feb 1;206:116287. - Kato, T. A., et al. (2019). Hikikomori : Multidimensional understanding, assessment,
and future international perspectives. Psychiatry and Clinical Neurosciences, 73(8),
427–440. - Teo, A. R., & Gaw, A. C. (2010). Hikikomori, a Japanese Culture-Bound Syndrome of
Social Withdrawal? A Proposal for DSM-5. Journal of Nervous and Mental Disease,
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questionnaire survey. BMC Psychiatry, 12, 169. https://doi.org/10.1186/1471-244X-
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