Una relazione di cura per due: narrazioni di terapia
Ho sempre pensato che la relazione di cura fosse tale, di fatto, per l’utente e solo indirettamente positivo per il professionista. Oggi invece mi sono sentita accarezzata in seduta: da psicologi, vi è mai capitato?
È un momento di oscillazione nella terapia a cui sto assistendo in presenza del mio supervisore. I numerosi tentativi di invasione di campo da parte dei genitori di M., di 17 anni, portano alla continua necessità di rivendicare le caratteristiche del setting in un servizio, il Ser.d., poco complice e sensibilizzato alla necessità terapeutica.
L’ultima grande invasione si è avuta quando ricevo una chiamata da parte del responsabile, pochi minuti prima del nostro incontro settimanale, che mi informa del desiderio, da parte di M., di continuare il percorso senza di me. Dopo che M. spiegherà prontamente di non essere al corrente di quanto accaduto, torno in seduta.
Inutile dire quanto questo evento sia andato a scontrarsi con il mio vissuto di profonda inadeguatezza, con il quale combatto a denti stretti per riappropriarmi del piccolo spazio esterno occupato dalla mia presenza. Per questo motivo, il mio ritorno è stato difficile e complesso.
La relazione è in stallo, l’imbarazzo e il timore del giudizio sono difficili da gestire per entrambe, e troppo ingombranti nella stanza. Il mio supervisore prende quindi le redini della situazione e io sento il bisogno di farmi da parte.
Cerco di rendermi invisibile sulla sedia tentando, silente, di rendere sempre meno evidente la costellazione di insicurezze che ingombrano il campo e non mi permettono di essere presente al momento.
M. comprende e rispetta il mio silenzio e, dopo qualche sguardo incuriosito, comincia la seduta con il mio supervisore. Più volte durante l’ora sento il suo sguardo posarsi su di me, timido ma dolce, come ad accertarsi che io sia ancora lì. Mi riscalda. Accetta il mio silenzio godendo dei miei assensi, dei cenni alle sue parole, due occhioni che mi comunicano <<ci sei anche tu, lo sto narrando anche a te>>.
Pian piano, nei successivi incontri, comincio a riprendere la mia voce, una parola alla volta. Mi riapproprio degli esercizi di mindfulness a inizio seduta, dei collegamenti, delle verbalizzazioni dei movimenti di M., riprendo fiducia nei miei, inevitabilmente anche nostri, insight. È l’espressione viva e compiaciuta di M. che mi permette di aggiungere sempre qualcosa in più.
Mi sento più comoda sulla sedia, posso farmi più grande. Ritorno ad occupare il mio posto. Perché si, questo è anche il mio posto. Lavoriamo sul primo movimento di autonomia di M. da una madre fagocitante, nella difesa di un setting di cui io sono parte integrante. Oggi mi sento adeguata, sono parte del processo, in una relazione in cui evolviamo entrambe, una relazione di cura per due.