Una storia senza eroi: il mio incontro con G.
Storie di una Comunità educante
In questa storia, ahimè, non ci sono eroi. È la storia di un breve incontro che mi ha messo dinanzi ostacoli e paure, ma anche tante risate. Non a caso ho faticato un bel po’ per collegare le sensazioni e le emozioni legate a questi piccoli frammenti di esperienza, da cui mi sentivo quotidianamente travolta come una violenta tempesta di sabbia.
G. è un ragazzo di 16 anni, veterano della Comunità insieme al fratellino, nella quale vive da ben tre anni. La narrazione sottostante è che deve accompagnare e lasciar andare il fratello minore alla ricerca di una coppia adottiva, mentre per lui il percorso è diverso. <<Ormai nisciun m vol, o no?>>, si presenta spiegando la propria storia ai nuovi operatori e volontari, tra uno sguardo basso e l’attesa di una speranzosa disconferma che, purtroppo, non arriverà.
G. è apparentemente il ragazzo delle contraddizioni. Dice di essere il più coraggioso del mondo, ma la notte dorme con la lucina accesa: “è brutto il buio totale”. Di giorno, invece, è infastidito dalla luce e insiste per serrare le finestre, “sto più comodo così”. In casa è il più forte, incute timore ai piccoli con le sue minacce, per essere invece accondiscendente e ingenuo con i pari. G. dice che non piange mai, rompe tutte le stanze quando vuole averla vinta; eppure giuro di averlo beccato in lacrime in silenzio sul divano una volta, nascosto, dispiaciuto dalla stanchezza estrema di un’educatrice alle prese con la terribile P.
A G. la scuola non interessa, urla al rientro quando i professori lo rimproverano, non vuole più andarci; eppure gli brillano gli occhi quando agli incontri scuola-famiglia gli insegnanti elogiano le sue capacità: “io raggiungo tutto con poco”, mi spiega fiero. A G. piace lo sport, ma si fa sempre male. È felice quando gli propongono nuove attività, ma lascia subito e si rifiuta di andarci.
Nonostante la sua presenza ingombrante, G. spesso passa inosservato nelle giornate in Comunità. Anche nelle riunioni di equipe si parla poco di lui, anzi, quasi mai. Un’altra contraddizione infatti è che G. fa paura, ma si prende cura di tutti. È attento al benessere dei piccoli, certo, nell’accezione in cui conosce il significato di “benessere”. Spende tutte le sue paghette in regali per i membri della grande famiglia, educatori compresi e, quando mi ha visto particolarmente stanca, ha svolto insieme a me le mansioni casalinghe ricordandomi, da nuova e poco pratica di casa, tutto quanto ci fosse da fare. Si è preoccupato di consolare noi educatrici quando, al suo compleanno, i suoi amici non si sono presentati alla festicciola organizzata nel grande salone della Cooperativa.
In questi lunghi momenti di accumulo G., silenzioso, affronta sentenze e incontri con assistenti sociali, gestisce il rapporto con familiari scomparsi e nello stesso momento affronta i compiti di sviluppo a cui tutti gli adolescenti sono chiamati: primi amori (che non ha il coraggio di incontrare, portando avanti relazioni di mesi dai soli social), delusioni scolastiche, distanza-vicinanza con il gruppo dei pari e sport. “Sono un vulcano che prima o poi ha bisogno di scoppiare, non si sa quando”, mi dice una volta G., rimasti soli nello studio raccogliendo i cocci, fantasmatici e non, di uno scoppio di ira costata una sedia e un tavolo rovesciati, e una bambina spintonata con violenza. Mi hanno insegnato un protocollo per le sue tempeste emotive: l’operatore più esperto resta a calmarlo mentre l’altro porta i piccoli nelle camere. Eppure anche durante le sue eruzioni, mentre minaccia di farsi del male, trova il tempo di esortare il fratellino a non perdere la chiamata serale con la coppia adottiva, dopo la quale ha la premura di chiedere, tra speranza e preoccupazione, “com’è andata?”.
Le mie giornate in Comunità sono sempre state fortemente influenzate dalla sua presenza: è sempre stato lui la causa delle mie più spontanee e durature risate, delle amorevoli prese in giro fonte di allegria anche per i piccoli; c’è lui nei miei ricordi più belli, nella serenità che si creava quando si sedeva accanto a me e, sotto la mia supervisione, mostrava e spiegava i compiti ai piccoli delle elementari. C’è ancora lui nei momenti di spensieratezza di casa quando, assorta, lo osservavo ballare, occhi al cielo, i brevi momenti in cui percepivo si sentisse solo un adolescente come gli altri, con sogni e desideri. Ma lui c’è anche in tutti quei momenti in cui ho avuto profondamente paura, in cui mi sono trovata dinanzi alle grandi barriere dei miei fantasmi di autogiudizio.
G. mi ha messa alla prova sin da subito, dal mio primo giorno di lavoro. È stato contento quando ero molto più giovane degli altri educatori… e avevo persino i suoi gusti musicali! Eppure è ben presto pesato il suo sguardo di delusione quando, in cerca di una materna risposta di accudimento, si è ritrovato la goffa presenza di una giovane neolaureata. Anche quando chiedo alla coordinatrice di poterlo accompagnare ad una sua partita di rugby, in compagnia del fratellino e un altro piccolo di casa, zainetti in spalla, fischietti e trombette per il tifo, non sono stata abbastanza: G. non ha sentito la mia voce, il mio tifo, “SOLO le trombette”, dice.
Il mio tifo purtroppo ho la sensazione che non lo abbia mai sentito. G sembra pieno di contraddizioni, ma in realtà il quadro è chiaro a tutti noi. G. ha un gran peso sulle spalle, che gli ricorda di non poter essere degno di amore e “quindi”, o probabilmente “perché”, non è capace. La sua lettura della realtà è inevitabilmente mirata alla ricerca di conferme della sua inadeguatezza, per le quali scattano scoppi di ira, ma da cui è anche fortemente dipendente.
Anche le relazioni con gli adulti instaurate da G. sono tutte volte alla costante ricerca di una conferma del suo essere sbagliato. E in questo G. è stato bravo ad agganciarsi al mio essere esigente, con me stessa e con gli altri.
Prima di una riunione di equipe richiesta urgentemente in seguito ad un’aggressione di G., scrivo la seguente mail alla coordinatrice:
“Cara M.,
Ho pensato a lungo quest’ ultima settimana, in concomitanza con la partenza di M., al percorso che sto ufficialmente per iniziare in Comunità, e in particolare con G.
Come sotto-obiettivi per sostenere quest’ultimo, non posso che innanzitutto lavorare sulla creazione di un legame, differente e nuovo certamente rispetto a quello con gli altri educatori, non solo perchè ogni legame è a sè stante e con le proprie caratteristiche, ma anche perché, per la mia giovane età, non posso rispondere alle sue richieste di accudimento in modo materno, quanto piuttosto come un modello adulto positivo caratterizzato da un autentico voler bene.
Mi ripropongo quindi di spronare la sua curiosità, agganciandomi agli interessi comuni; e di rinforzare il suo proporsi come figura di riferimento per i piccoli, incoraggiandolo, sottoforma di gioco e in un clima di ilarità, ad aiutarli con i compiti, a leggere le fiabe la sera, e a tranquillizzarli quando sono agitati”.
Ogni mio faticoso tentativo di fare ordine nella mia esperienza con G. dura veramente poco.
“Sei durata solo tre mesi” è stato il colpo di grazia sferrato da G., quando gli ho comunicato che, di lì a poco, non sarei più stata la sua educatrice. Ho pensato a lungo alla mia scelta, non senza un forte senso di colpa che solo ora sta lasciando spazio ad un’autentica riflessione. Continuo a chiedermi se dietro la mia decisione di abbandonare la Comunità, quantomeno nel mio ruolo lavorativo, potesse esserci solo una grande paura di essere messa, specialmente da G., costantemente dinanzi ai miei limiti e ai miei difetti, riproponendomi degli schemi con cui lotto da un bel po’.
In questo periodo sto imparando pian piano ad abbracciare. Abbracciare la mia scelta, ma anche un po’ me stessa e tutti i miei difetti. Sto imparando ad abbracciare la parte di G. che mi appartiene, quella di sfida, ma anche quella dolce, di cura e di premura per l’altro. Abbraccio la nostra breve relazione, fatta di limiti, di tentativi ed errori, di risate, battute, paure e timori. Abbraccio che tu, G., mi abbia insegnato poco a poco ad abbandonare la mia idea di perfezione, mostrandomi che, talvolta, si può anche avere paura e lasciar andare quando non è ancora il momento. Stanotte la lucina accesa voglio lasciarla anch’io.
C’è stato un autentico e timido voler bene da parte mia, caro G. Mi auguro che tu possa riconoscere quanto c’è di buono in te. Non è vero che nessuno ti vuole, ci sarà sempre qualcuno che, qui, farà il tifo per te, anche in modo silente, anche solo con le trombette.
In questa storia non ci sono eroi. C’è “solo” un breve ma ricco incontro.