Rabbia cronica: quando la rabbia copre il dolore
Nella maggior parte dei casi, dietro una rabbia cronica risiede un grande dolore. Una ferita antica e profonda che reclama attenzione.
Spesso la rabbia è considerata un’emozione negativa, un qualcosa di cattivo e pericoloso o di cui vergognarsi. In realtà, al pari delle altre emozioni, possiede una sua funzione naturale, indispensabile per il nostro adattamento all’ambiente e la nostra salute. Se viviamo un’ingiustizia o un torto, la rabbia ci viene in soccorso per salvaguardare la nostra persona e i nostri diritti. Tuttavia, quando negata o, al contrario, utilizzata per prevaricare sull’altro, perde questa forma sana e diventa disfunzionale.
L’inibizione della rabbia e la rabbia cronica
La rabbia può essere proibita da divieti interni, introiettati mediante messaggi genitoriali e modelli di riferimento. Se il riconoscimento e/o l’espressione della rabbia sono inibiti, l’energia emotiva, invece di andare verso l’ambiente, si retroflette sull’organismo. Si scarica su corpo ed emozioni. Assumendo la forma di sintomi e sentimenti autopunitivi di vergogna, indignità, depressione. E, soprattutto, colpa. Salvo venir fuori per accumulo mediante agiti, non di rado pericolosi per se stessi o per gli altri.
Se invece la rabbia viene espressa senza però esaurirsi, ma al contrario cronicizzandosi, può esservi un’accusa costante nei confronti di sé, dell’altro e/o della vita, con il prevalere di sentimenti distruttivi ed azioni punitive e vendicative talvolta violente. In questo caso si assiste ad una rabbia smisurata che ha poca attinenza con la situazione reale ma che si fa portavoce di un’esperienza non risolta. Di un passato che continua a riattualizzarsi nel presente, per essere visto ed elaborato. La rabbia può essere stata rinforzata dall’ambiente familiare e culturale e utilizzata in sostituzione di altre emozioni, più difficili da contattare e tollerare. Solitamente, quando si presenta in forma cronica, copre un dolore profondo.
La rabbia, la colpa e il dolore
La rabbia e la colpa spesso si uniscono nel tentativo comune di evitare il dolore mediante l’accusa. “Non è colpa tua, non è colpa tua, non è colpa tua…”, ripete con forza lo psicoterapeuta a Will, nella scena più nota del film “Will Hunting – Genio ribelle” di Gus Van Sant. Quasi a voler imprimere quelle parole nella sua mente, in modo da rompere la difesa e liberare il pianto. Scacciare via la colpa che il ragazzo si infligge per i traumi della sua infanzia, per essere stato abbandonato e per i maltrattamenti subiti. La colpa era più sopportabile del dolore. E la rabbia aveva creato uno scudo, uno strato di difesa sul cuore.
Quando vi è una interruzione nel processo di riconoscimento ed elaborazione del dolore, la persona può rimanere intrappolata nella rabbia come tentativo di evitare di entrare in contatto con la sua reale sofferenza. Ad un livello più profondo, la colpa offre l’illusione onnipotente di avere un controllo e un potere sull’evento traumatico. Una via salvifica dalla ferita originaria. Si tratta di una strategia difensiva messa in atto per evitare il crollo che deriverebbe dall’impattare contro l’esperienza, nella sua nuda e cruda realtà.
Elaborare il dolore ed accettare ciò che è stato
La maggior parte delle persone teme di sentire il dolore e, ancor di più, non vuole rinunciare a ciò che ha perso, alla speranza di cambiare ciò che non può essere cambiato. E, così, esclude parti proprie e della realtà, finendo con il soffrire di più e con l’ammalarsi. Per non accettare la sofferenza che fa parte della vita, rinuncia a vivere pienamente la propria esistenza.
Entrare in contatto con i vissuti sepolti dietro la corazza della rabbia vuol dire innanzitutto connettersi al corpo come luogo del sentire e non solo come mezzo di scarica di una tensione. Il pianto è l’espressione naturale mediante cui poter accedere al proprio dolore, viverlo. Nel respiro, nelle lacrime, nella pelle. Comprenderlo e integrarlo nella propria storia e nella propria esperienza. Fino ad arrivare ad accettare ciò che è stato e ciò che non può essere più. A dire addio a ciò che è definitivamente perduto. Ed è allora che il dolore si riduce, che si eclissa poco a poco lasciando spazio ad altro.