Revenge Porn: spazi nuovi, violenza antica
Il fenomeno del Revenge Porn rientra tra le forme emergenti di violenza di genere che bisogna contrastare. Di cosa si tratta?
Diffusione di immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate.
La legge 19 luglio 2019 n. 69, modifica il codice penale sulla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. È composta da 21 articoli che indicano una serie di reati attraverso i quali si esercita la violenza domestica e di genere.
Grazie all’articolo 10, il Revenge Porn è diventato un reato a tutti gli effetti sotto la dicitura di “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”. Proprio in questi casi il linguaggio è veicolo potente di messaggi importanti.
L’espressione “Revenge Porn” non rappresenta nel modo più corretto il fenomeno di cui stiamo parlando.
Revenge significa “vendetta” e presuppone quindi un comportamento antecedente che giustifichi tale reazione. Accettare questo significa colpevolizzare la vittima e legittimare quella che è a tutti gli effetti violenza di genere. Allo stesso tempo anche il termine Porn risulta non essere appropriato, perché nella pornografia, sia professionale che amatoriale, sussiste un consenso alla diffusione.
Il primo passo necessario per affrontare questo fenomeno sempre più diffuso è stato compiuto.
Ad oggi, però, le vittime di questo tipo di violenza rischiano il posto di lavoro, vivono sentimenti di vergogna e vengono additate come “donne dai facili costumi”.
Queste reazioni sono frutto di logiche maschiliste e sessiste che caratterizzano i rapporti interindividuali, anche quelli che si creano nei nuovi spazi virtuali. Non a caso destinatari privilegiati di questi reati sono principalmente le donne, ed in misura sempre più ampia anche gli uomini omosessuali.
Nel Revenge Porn, a differenza della Sextortion, è assente il ricatto esplicito e l’estorsione di denaro come fine ultimo, ma è presente nella maggior parte dei casi un legame affettivo tra vittima e carnefice. Lo scopo di questo atto violento è quello di umiliare e vendicarsi, diffondendo materiale intimo che non è stato ottenuto illegalmente, ma prodotto e condiviso spontaneamente dalla vittima.
Questo delicatissimo aspetto del fenomeno apre una profonda riflessione sul tema del consenso.
Il consenso a filmare non corrisponde al consenso a diffondere, e la condivisione consapevole e volontaria, non legittima la ri-condivisione dello stesso materiale in altre sedi da parte di terzi.
Altro specifico aspetto del fenomeno è la reiterazione. Questo tipo di violenza non si verifica una sola volta ma all’infinito, perché il materiale in questione può diffondersi in modo esponenziale.
Indipendentemente dalla volontà delle persone coinvolte, la violenza si perpetra nel tempo e la donna che inizia un percorso di uscita dalla dinamica violenta, non ha il potere di emergerne realmente. Ciò avviene perché il controllo e le conseguenze di questo tipo di azioni vanno oltre la relazione con l’autore della violenza. Tutti i destinatari diventano potenziali autori violenti.
Come si può intervenire? In questi casi l’azione legislativa è necessaria e propedeutica all’intervento trasformativo, ma spesso non è sufficiente. Un lavoro di supporto alle survivors non deve mai distaccarsi da un lavoro costante di sensibilizzazione collettiva rispetto alla tematica, che coinvolga sia le potenziali vittime ma soprattutto i potenziali autori.