Adolescenti & autolesionismo: un meccanismo (apparentemente) incomprensibile

Di Antonia Bellucci

“Il dolore che provo è così forte che non riesco a sopportarlo … ma lo posso trasformare … quando si trasforma in tagli o bruciature, allora sì … quello è un dolore che posso gestire!”

Queste sono le parole di una ragazza di 14 anni: descrive il suo dolore e la strategia da lei adottata per riuscire a superarlo.

L’autolesionismo è un fenomeno nascosto ma molto d i f f u s o , soprattutto tra gli adolescenti italiani e non. È un disturbo che colpisce il 6% della popolazione adulta e oltre il 15% degli adolescenti e dei giovani adulti. Particolarmente diffuso nella popolazione psichiatrica, si presenta di frequente all’interno dei disturbi di personalità borderline, ma può comparire anche in pazienti affetti da disturbi d’ansia, depressione, d i s t u r b i d e l comportamento alimentare o disturbi di personalità diversi dal borderline. La natura della p a t o l o g i a , s o l o d i r e c e n t e r i c o n o s c i u t a c o m e c l a s s e diagnostica a sé stante, è assai variegata: molteplici sono, infatti, le modalità con cui ci si può fare del male e molteplici sono anche le cause che spingono a condotte a u t o l e s i v e . S e b b e n e g l i atti autolesionisti abbiano una natura diversa rispetto ai tentativi di suicidio, esiste un forte legame predittivo tra i primi e i secondi, che sottolinea ulteriormente la necessità d i conoscere ed intervenire tempestivamente su questa forma di sofferenza.

In questo breve articolo vengono introdotti i principali riferimenti al tema, illustrando sinteticamente il complesso meccanismo sottostante al comportamento patologico e le pr incipal i e ut i l i st rategi e di intervento.

Sono molti gli adolescenti, in particolare le femmine, che si servono di questo peculiare modo di g e s t i r e un d o l o r e e m o t i v o . Adolescenti spaventati, permeati da sensazioni di solitudine e tristezza che li portano ancor più ad isolarsi, a nascondere il proprio dolore così come le ferite fisiche auto- inflitte che si procurano nella speranza di “far uscire il dolore dal corpo”. Sollievo però effimero quello da ferite fisiche, che difatti si affievolisce prontamente: così, un taglio dopo l’altro, il dolore si amplifica, diventa più forte e diviene, molto spesso, inconfessabile. Sono molti quelli che lo fanno, ma pochi gli adolescenti che rivelano questi “rituali” agli amici confidenti, ancora meno chi ne parla in famiglia.

L’adolescenza è di per sé una fase della vita molto delicata, un momento in cui mentre il corpo cambia, le emozioni si amplificano e ognuno si trova a dover fare i conti con le proprie paure, con la rabbia, con la tristezza e anche con la vergogna. Così succede, purtroppo, che molti ragazzi iniziano a tagliarsi per imitazione, per provare, o semplicemente perché in quel momento non intravedono strategie migliori per gestire l’esplosione emotiva delle proprie sensazioni; con questa modalità diventa più comodo “buttarle fuori” perché vedere il proprio dolore circoscritto in una ferita evidente lo rende qualcosa di esterno, “identificabile e padroneggiabile”, piuttosto che un oscuro meccanismo interiore, soffocante quasi fino alla morte. Compito di genitori ed educatori è quello di mostrare ai ragazzi dei modi più sani e corretti per divenire consapevoli delle proprie emozioni; delle modalità efficaci per provare a comprenderle e gestirle, ossia per diventarne padroni senza lasciarsi travolgere da esse. La maggior parte dei ragazzi autolesionisti mostra scarsa accettazione di sé e lamenta una vita permeata da solitudine e difficoltà di comunicazione; molti di loro dichiarano di non sapere in che altro modo poter far fronte al loro dolore, tanto che anche solo dar voce a quel dolore li spaventa. Tuttavia la prassi psicologica ci rivela che molto spesso comunicare questo disagio, sentirsi accolti e ascoltati nella propria sofferenza, vivere un’esperienza empatica riguardo il proprio malessere, diminuisce significativamente questo comportamento aprendo così la strada ad una profonda crescita personale nel raggiungimento del proprio benessere.

Il primo passo, come sempre, è la consapevolezza del problema. I ragazzi che mettono in atto comportamenti autolesionistici devono, quindi, riconoscerli come disfunzionali per la loro vita e devono attivare una serie di strategie utili per affrontarli: · Cercare gruppi di sostegno · Praticare uno sport, un hobby o una tecnica di meditazione (es. yoga) · Condividere il problema con familiari e amici · Liberarsi degli strumenti utilizzati per ferirsi · Chiedere aiuto a un esperto dell’età evolutiva · Fare una lista delle azioni alternative da compiere al posto d i f e r i r s i , o g n i qualvol ta si avver te lo stimolo.

Cosa è possibile fare invece per un genitore che deve affrontare l’autolesionismo del proprio figlio? È importante non lasciarsi prendere dal panico e incoraggiare un dialogo che permetta a l ragazzo d i riconoscere il problema, cercando insieme strategie alternative per g e s t i r e i l d o l o r e e m o t i v o . Indispensabile è sempre l’ascolto: dietro un adolescente che si taglia c’è un adolescente che si sente trascinato da un fiume in piena di emozioni e sensazioni che non è in grado di gestire. Chi desidera aiutarlo deve tenere a mente tutto questo e offrirgli, per iniziare, un o r e c c h i o d i s p o n i b i l e e non giudicante, pronto ad arginare, insieme, quel fiume in piena. Al contrario, ci sono errori molto comuni che andrebbero evitati: · Far finta di nulla o minimizzare · P r e o c c u p a r s i e c c e s s i v a m e n t e , “ingigantire” il problema · Colpevolizzare il figlio per questo suo comportamento (“Con tutto quello che facciamo per te”) · Colpevolizzare se stessi (“Cosa ho sbagliato?”) · Controllare continuamente i polsi o altre zone · Chiedere e pretendere spiegazioni logiche/razionali

L’autolesionismo, così come altre traiettorie evolutive devianti, è innanzitutto la manifestazione di una profonda sofferenza interiore, e come tale va rispettato ed affrontato con una “risoluta delicatezza”. È fondamentale non chiudersi in se stessi, non rimanere isolati, ma cercare il supporto di persone fidate, come amici e familiari, e di professionisti dell’ambito psicologico. Questo vale sia per i di ret t i interessati che per le loro figure di riferimento (genitori, insegnanti e amici); la vergogna e il senso di colpa sono nemici da rifuggire in quanto inibiscono il confronto, conducono all’isolamento e tendono a dipingere come insormontabile una situazione che, invece, nasconde ancora tante porte aperte al futuro.

Diagnosi di autolesionismo 

In questa direzione si è mosso il DSM-V (APA; 2013), che considera l’autolesività non suicidaria come categoria diagnostica a sé stante. I c r i t e r i p e r l a d i a g n o s i d i autolesionismo propost i nel manuale sono i seguenti: 

Criterio A: nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, l’individuo si è intenzionalmente inflitto danni di qualche tipo alla superficie corporea in grado di indurre sanguinamento, lividi o dolore (per es. tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, c o l p e n d o s i , s t r o fi n a n d o s i eccessivamente), con l’aspettativa che la ferita porti a danni fisici soltanto lievi o moderati (non c’è intenzionalità suicidaria). 

Criterio B: l’individuo è coinvolto in condotte autolesive con una o più delle seguenti aspettative: · Ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi · Risolvere una difficoltà interpersonale · Indurre una sensazione positiva 

C r i t e r i o C : l ’ a u t o l e s i v i t à intenzionale (le condotte autolesive) è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi: · Difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio generalizzato, autocritica, che si verificano nel periodo immediatamente p r e c e d e n t e a l g e s t o autolesivo.

· Prima di compiere il gesto autolesivo, presenza di un periodo di preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto che l’individuo ha intenzione di commettere. · P e n s i e r i d i a u t o l e s i v i t à p r e s e n t i frequentemente, anche quando il comportamento non viene messo in atto. 

L’identificazione delle diverse forme che i l disturbo può assumere risulta utile per fare chiarezza e facilita un intervento tempestivo.

L e 3 categorie di autolesionismo

Ciò che in letteratura è definito ‘deliberate self harm’ – in italiano ‘auto-danneggiamento intenzionale’- comprende un v e n t a g l i o d i c o m p o r t a m e n t i p a t o l o g i c i , riconducibili a tre categorie principali: 1. le condotte di auto-danno, come l’abuso di sostanze psicoattive, la sessualità promiscua e i l gioco d’azzardo, 2. le condotte di auto-avvelenamento, come l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe, 3. le condotte autolesive, come tagliarsi e bruciarsi. 

Categorie delle condotte autolesive 

Già negli anni Novanta le ricerche condotte da Favazza e colleghi hanno reso possibile una prima classificazione delle condotte autolesive. Favazza e Rosenthal (1993) hanno identificato diverse tipologie di autolesionismo sulla base del grado di danneggiamento d e i t e s s u t i e d e i p a t t e r n comportamentali.

  • L’autolesionismo maggior e c o n s i s t e i n a t t i infrequenti e isolati che p r o v o c a n o u n danneggiamento dei t e s s u t i g r a v e e permanente; solitamente è associato alle psicosi o alle intossicazioni acute e include a t t i quali la c a s t r a z i o n e e l’enucleazione oculare. 
  • L’autolesionismo stereotip i c o c o m p r e n d e comportamenti ripetuti in modo costante e ritmico, che sembrano essere privi di un significato simbolico, comunemente associati a grave ritardo mentale, all’autismo o alla sindrome di Tourette; ne sono esempi il mordersi o dare colpi con la testa. 
  • L’autolesionismo moderato o superficiale consiste in atti episodici o ripetuti a b a s s a l e t a l i t à c h e comportano un lieve danneggiamento dei tessuti corporei (tagli, bruciature, abrasioni). Il soggetto utilizza strumenti e s t e r n i come r a s o i , lamette, forbicine e c o m p i e g e s t i autolesivi che solitamente hanno un significato simbolico, in genere relazionale. All’interno di q u e s t a c a t e g o r i a , Favazza e Simeon (1995) hanno identificato tre forme principali.

Le 3 forme di autolesionismo moderato

L’autolesionismo moderato è definito compulsivo quando si declina in comportamenti quotidiani, come la tricotillomania (tirarsi i capelli) o l’onicofagia (mangiarsi le unghie); si tratta di una forma di discontrollo degli impulsi. Episodico è, invece, un tentativo di riacquisire un senso di controllo e padronanza di fronte a emozioni e pensieri intollerabili, mettendo in atto comportamenti autolesivi come tagliarsi, bruciarsi o colpirsi. Ripetitivo, infine, è una dipendenza dal comportamento autolesivo, che può diventare identitario (Es. ‘sono un cutter’).

Cura del l ’autolesionismo: i trattamenti

Psicoterapia per l’autolesionismo Il trattamento più diffuso ed efficace per interveni re sul le condotte autolesive è la Dialectical Behavioral Therapy (DBT), ideata da Marsha Linehan nel 1993 per i pazienti con disturbo borderline di personalità, poi sviluppata ed estesa ad altre tipologie di pazienti. La peculiarità del modello della Linehan consiste nell’affiancare alla componente di cambiamento e ristrutturazione cognitiva una dimensione di accettazione. L ’ a p p r o c c i o c o g n i t i v o – comportamentale standard (CBT), infatti, lavora soprattutto nella direzione della prevenzione o della riduzione dei sintomi autolesivi nei pazienti di Asse I che presentano questi tratti, come i gravi depressi o p a z i e n t i c o n d i s t u r b i d e l comportamento alimentare. La CBT non solo pone attenzione sugli aspetti irrazionali e cognitivi dei pensieri negativi che precedono l’atto autolesivo, ma si compone anche di moduli prettamente comportamentali: le tecniche di problem solving possono essere utili nell’aiutare gli adolescenti ad affrontare gli stress che si associano all’autolesionismo, mentre le tecniche cognitive possono essere particolarmente utili nel caso in cui al tentativo di suicidio sia associata una diagnosi in Asse I (Harrington, R., Saleem, Y, 2002). Il modello DBT, invece, è stato sviluppato a partire dalla tradizione comportamentale, ma ha affiancato alla dimensione del cambiamento un lavoro di accettazione, elemento che peraltro risulta trasversale alle cosiddette terapie cognitivo-c o m p o r t a m e n t a l i d i t e r z a generazione. La DBT prevede una presa in carico del paziente autolesionista a più livelli: terapia individuale, partecipazione ad un gruppo di skill training, gestione del caso in equipe e coaching telefonico per gestire le crisi sono alcuni dei tratti fondamentali dell’approccio. Il terapeuta individuale costituisce la principale figura di riferimento del paziente; nel corso delle sedute si lavora s u l l a motivazione a l trattamento e si crea un linguaggio emotivo comune tra paziente e terapeuta, che permetta di ridurre gli effetti delle emozioni negative e aiuti a recuperare e sviluppare strategie utili per tollerare le emozioni negative che sono alla base dei comportamenti autolesionistici e degli stati di malessere generale del paziente. Lo skill training è invece un percorso di natura psicoeducativa e, in un contesto di gruppo, mira a sviluppare una serie di abilità e competenze che il paziente possa usare per gest i re la propr ia quotidianità e le relazioni. Secondo quanto indicato da Linehan (2011) le abilità da sviluppare riguardano la mindfulness, la regolazione emotiva, l’efficacia interpersonale e la tolleranza allo stress.

Importanza delle emozioni positive 

La letteratura recente (Morris, C., Simpson, J., Sampson, M., Beesley, F., 2013) evidenzia l’importanza di intervenire sulle emozioni positive, costruendo un linguaggio emotivo comune tra paziente e terapeuta che sia in grado di ridurre gli effetti delle emozioni negative e a i u t i a recuperare e sviluppare strategie utili per tollerare le emozioni negative c h e s o n o a l l a b a s e dei comportamenti autolesionistici e degli stati di malessere generale del paziente. Se coltivate nel tempo, le emozioni positive (Fredrickson, 2001) possono cost rui re una protezione che consente alle persone di affrontare meglio gli eventi avversi futuri. Guidate da emozioni positive le persone formulano un repertorio più ampio di soluzioni ai problemi. L’esperienza di emozioni positive è legata a probabilità più alte di godere di buona salute e di adattarsi a s i t u a z i o n i d i f f e r e n t i , anche problematiche, sia i n senso psicologico che fisico. Il lavoro sullo sviluppo delle emozioni positive è mirato a migliorare le relazioni con gli altri e a formulare strategie di pianificazione di attività di vita d e s i d e r a b i l i che tamponino l’influenza delle emozioni negative e delle condotte disregolate da esse innescate.

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