Corporeità eversiva ed istituzioni

Perchè questo titolo: “Corporeità eversiva ed istituzioni”? Cercherò di spiegarlo in questo nuovo articolo. Durante i primi mesi del mio percorso formativo in arteterapia, mi lasciava assai perplessa l’insistenza con la quale i docenti ci raccomandavano di usare la massima cautela nell’introdurre le nostre tecniche nei contesti istituzionali.

Francamente mi sembrava un’attenzione sproporzionata fino a quando non ho avuto modo di trovarmi esattamente in quella situazione che mi era stata anticipata.

L’aspetto che di primo acchito mi pareva maggiormente essere più coinvolto, come peraltro mi avevano anticipato, era quello legato ad una caratteristica centrale del metodo applicato dalla mia scuola, Poliscreativa. Sto parlando del ruolo della corporeità, viva, ritmica e condivisa, non solo del paziente, ma anche e soprattutto, almeno inizialmente, di quella del terapeuta. Una corporeità eversiva.

Alessandro Tamino al di là di qualunque retorica, mio maestro non solo professionalmente, ma anche di vita, quando nei suoi seminari cerca di spiegare perché le istituzioni e le persone che ci si identificano, si sentano così facilmente minacciate dal Sistema Poliscreativa, quasi come un mantra racconta sempre l’episodio biblico dell’Ebrezza di Noè.

Dunque, secondo la Genesi (9,20-27) le cose sarebbero andate in questa maniera. Come tutti sappiamo Iddio, dopo averci creato e dopo averci cacciato dal Paradiso Terrestre a colonizzare questa valle di lacrime, si rese ben presto conto di quanto gli fossimo venuti peccatori. Decise a quel punto di fare una ripulita ed incaricò Noè, l’unico che avesse continuato a rispettare la sua legge, di costruire una grande nave, riempirla con coppie sicuramente eterosessuali delle più svariate specie animali, mandò tanta di quella pioggia da sterminare tutti gli altri.

Quando finalmente le acque cominciarono a ritirarsi Noè scese dalla famosa arca, assieme alla sua famiglia e cominciò a ripopolare la Terra. Riprese a funzionare anche l’agricoltura e, tra le prime piante seminate, troviamo, sempre secondo la Bibbia, la vite.

Il patriarca preparò del vino e lo assaggiò. Si prese una sbronza micidiale e cominciò a dare un pessimo spettacolo, arrivando persino a denudarsi dentro la sua tenda.

Noè aveva tre figli, Sem, Iafet e Cam, il più piccolo. A trovarsi nei paraggi, sfortunatamente per lui, fu Cam, che quindi vide la nudità di suo padre e corse subito fuori per chiamare i suoi fratelli che intervenissero anche loro. “

Ma Sem e Iafet presero il suo mantello, se lo misero insieme sulle spalle e, camminando all’indietro, coprirono la nudità del loro padre. Siccome avevano il viso rivolto dalla parte opposta, non videro la nudità del loro padre. Quando Noè si svegliò dalla sua ebbrezza, seppe quello che aveva fatto il figlio minore” .

A quel punto Noè maledisse la sua discendenza e stabilì che addirittura sarebbe diventata schiava degli altri suoi figli, Sem e Iafet.

Le possibilità interpretative di questo testo, come per ogni passo biblico sono pressoché infinite. Una molto usata dai predicatori nordamericani durante i secoli d’oro dello schiavismo, fu che Cam fosse il progenitore dei neri deportati dall’Africa e che quindi noi bianchi, eredi degli altri figli di Noè non fossimo altro che gli esecutori della volontà divina.

Ma al di là di tutto, ci appare evidente che il ruolo del padre, massimo vertice istituzionale in una società così tanto patriarcale, viene fortemente minacciato dallo svelamento della sua nudità.

La percezione esplicita delle caratteristiche fisiche, corporee e quindi i limiti, di chi “incarna” il potere, l’istituzione, è evidente che lo faccia sentire minacciato.

Ma è sempre cosi? Forse no. Forse dipende da quanto il ruolo di potere si basi sull’ autoritarismo e non sull’autorevolezza.

Un altro racconto che mi ha colpito molto e mi colpisce ogni volta che partecipo ai seminari, riguarda i percorsi formativi di alcune forme di sciamanesimo che pare avvengano in due fasi.

Nella prima fase al giovane sciamano vengono insegnati dei veri e propri “trucchi” per fascinare chi si rivolge a lui.

Quando l’allievo giunge al termine di questa fase, lo sciamano “formatore” chiede all’allievo se vuole proseguire e passare alla fase successiva, quella finalizzata a raggiungere una conoscenza più profonda.

Una conoscenza che preveda un tale contatto con la propria corporeità da poterla trasmettere con effetti benefici a chi gli stia nei paraggi. Ma questo altro passo è subordinato ad una rinuncia.

Rinunciare proprio a tutti quei poteri in qualche modo anche truffaldini, che ha appreso nel suo viaggio di formazione.

Una cosa che mi ha sempre molto impressionato è osservare come, chi si senta veramente a suo agio nel suo ruolo professionale, si muova in maniera armonica, senza scatti, parli con una voce pacata.

La voce è molto più corpo, vero e proprio, di quello che di solito pensiamo.

Chi fa il nostro mestiere, psicologo, psicoterapeuta o psichiatra che sia, non può non essersi fatto attrarre da quel prefisso “psi”.

Forse dovremmo dare per scontato che questi ruoli si basino, in qualche modo e soprattutto a livello inconscio, proprio sulla negazione del corpo.

Il perché ovviamente copre il più ampio degli spettri. Nulla di male ovviamente. Se per fare quello che facciamo dovessimo essere sempre tutti sani mentalmente, le nostre facoltà andrebbero deserte.

E quindi?

Quindi non solo un buon lavoro psicologico su noi stessi, ma anche una possibilità di mettere in campo quella assoluta continuità tra il nostro corpo e quella sua funzione che chiamiamo “mente”.

In alternativa c’è poco da fare, vuol dire sempre lavorare con il freno a mano tirato, una delle condizioni più faticose e più limitanti possibili in qualunque lavoro.

Ed è quindi comprensibile che quando qualcuno ti proponga di farti, prima di tutto, questa domanda: “Cosa sta dicendo, in questo momento, il mio corpo?”, lo si consideri come una minaccia, un pericoloso portatore di strategie eversive per il proprio ordine delle cose.