Diniego e violenza di genere: la sfida comunitaria della psicologia clinica

di Angelo Capasso, Psicoterapeuta a orientamento sistemico-relazionale e Manager Clinico del servizio di psicologia online Unobravo

È difficile parlare di violenza, e in particolar modo di violenza di genere, senza usare parole violente, senza correre il rischio di essere violenti verso una delle parti coinvolte, tanto il perpetrator quanto la vittima, la quale spesso finisce con l’essere nuovamente schiacciata ed esposta a processi di vittimizzazione secondaria ad opera di chi dovrebbe tutelarla. Ne sono testimonianza le cronache dei media negli ultimi mesi che hanno raccontato gli stupri di gruppo a Palermo e Caivano e numerosi femminicidi: il dossier Viminale del 15 agosto 2023 contava 71 omicidi di donne dal 1 gennaio al 31 luglio 2023, numero ampiamente superato tra Agosto e Novembre, purtroppo con l’aggiunta di più di trenta ulteriori femminicidi, ultimi dei quali quelli di Francesca Romeo e Giulia Cecchettin. Senza contare le oltre 8.600 denunce per stalking e tutte le situazioni non mappate, in quanto sfuggono ai radar di servizi socio-sanitari e autorità.  Siamo stati bombardati da narrazioni, che spesso avevano toni da thriller, tinte di un horror, intrise di commenti agli episodi talvolta forieri di pregiudizi e stereotipi. Quando questi episodi non sono inquadrati all’interno di una cornice che tiene conto della complessità del fenomeno, si corre il rischio di fare una lettura, e conseguentemente una narrazione, appiattita. 

Avere cura delle parole per descrivere queste storie violente, che sono storie di grave disagio e sofferenza, ma anche di asimmetria di potere e di disparità di genere, è importante quanto avere cura dei processi di pensiero messi in moto per leggere, decodificare e scegliere strategie per contrastare il fenomeno. A soli quattro anni dalla sua entrata in vigore, in Italia si è sentita la necessità di ripensare e modificare la legge n. 69 del 19 luglio 2019, ribattezzata “codice rosso”, che era stata istituita per rafforzare la tutela di coloro che subiscono violenze, per atti persecutori e maltrattamenti con procedure più snelle e repentine mirate alla messa in sicurezza delle vittime. Il 15 ottobre 2013 è stata approvata la Legge 119/2013 (in vigore dal 16 ottobre 2013) “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, che reca disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere”. Occorre tuttavia che i tavoli di discussione – politici, accademici, operativi – predisposti per contrastare il fenomeno siano sempre aperti in modo da agire su più fronti, non soltanto sul piano giudiziario con azione repressive o rieducative, ma anche su quello sociale, culturale, educativo affinché siano continui e incessanti il lavoro e il dialogo sulle matrici culturali della violenza di genere. 

Nel saggio Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui, pubblicato di recente dai tipi di Minimum Fax, Marco Novelli indaga ed esplora le forme di disagio psichico con il più elevato tasso di diffusione nel XXI secolo. Dal confronto dell’autore con psichiatri, psicologi e psicoterapeuti non solo emerge che i più diffusi sono depressione, attacchi di panico, disturbi di personalità borderline, disturbi dell’alimentazione, fenomeni di ritiro sociale – psicopatologie che non erano altrettanto rilevanti nel Novecento – ma anche che sussiste un aspetto comune a questa costellazione di disagi psichici, ovvero  la connessione tra le forme di malessere psicologico  e quella che Novelli definisce “società degli individui” permeata dal’imperativo della prestazione e della competizione. Uno spunto molto interessante dell’autore è il focus sull’influenza che la dimensione psicosociale ha sulla sofferenza mentale, ma che ha anche sulle possibilità di cura. Il titolo, che riprende e amplia il concetto cartesiano del “Cogito Ergo Sum”, rimarca che la sofferenza psichica non è mai una questione meramente individuale, ma che è sempre implicata anche una dimensione collettiva. Da questa prospettiva la lettura che Novelli fa della dimensione collettiva della sofferenza è perfettamente applicabile, oltre che alle psicopatologie, anche a tutte le forme di violenza (non solo quella fisica, ma anche quella sessuale, psicologica, economica, assistita).

Sembra che le cose inizino ad esistere in quanto tali quando iniziano ad avere un nome e, nonostante sia un fenomeno antico quanto la cultura patriarcale in cui affonda le radici, solo da alcuni anni la violenza di genere è stata riconosciuta come tale e inquadrata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come problema sistemico, la cui eziopatogenesi è multidimensionale. Tale intreccio di fattori rende il fenomeno di difficile misurazione e collocazione, sia perché sono implicati più livelli (psicologico, relazionale, familiare, culturale, sociale), sia perché in larga parte sommerso. Il parziale sommergimento diventa un disconoscimento del fenomeno agito in forma inconsapevole a opera di tutte le parti in gioco, dal perpetrator alla vittima, dai media alle istituzioni coinvolte, ed è il risultato di uno dei meccanismi psichici maggiormente implicati nel negare, camuffare, mistificare la violenza. Intuito e teorizzato già da Freud, poi ripreso da vari psicoanalisti, il concetto di diniego è uno dei meccanismi difensivi più potenti e arcaici. Melanie Klein lo descrive come un tentativo della psiche di difendersi dall’angoscia più abissale e soffocante dei propri persecutori interiorizzati, suggerendo che la prima forma di diniego coinvolge la propria realtà psichica e, solo a seguire, anche aspetti della realtà esterna vengono denegati dalla persona. Tali operazioni inconsce non sono semplicemente menzogne o dissimulazioni, bensì il risultato di una reale angoscia che spinge il perpetrator a rimaneggiare, selezionare, ricostruire, totalmente o in parte, i ricordi degli eventi in cui ha commesso violenza. È un modo di rinarrarsi per preservare l’immagine di sé perché riconoscere e ammettere la violenza delle proprie azioni implicherebbe per il perpetrator di mettere in discussione il proprio costrutto identitario; in poche parole è un modo per restare integri, agli occhi di sé stessi prima ancora di quelli altrui. Da anni impegnato nella ricerca sulla violenza di genere, che diventa strumento di conoscenza per comprendere il fenomeno e quindi meglio contrastarlo, Marco Deriu riprende la teorizzazione kleiniana di diniego osservando che c’è una relazione reciproca e circolare tra la realtà esterna e quella interna che si influenzano reciprocamente: “si negano realtà esterne per non affrontare le emozioni e le esperienze interiori che esse ci provocano e si negano le emozioni e i vissuti interiori per non affrontare le realtà esterne” (Deriu, 2012 p. 32). Gli anni di lavoro con uomini maltrattanti sono stati utili al sociologo per stilare una classificazione cui il clinico può fare riferimento per individuare il livello di gravità del diniego in queste situazioni, una scala di diverse forme di denegazione che vanno dall’attribuzione di un carattere difensivo o di reazione ai propri atti alla totale negazione e disconoscimento dei fatti. Riconoscere le forme di diniego implicate e soffermarsi sul loro ruolo nelle relazioni afflitte da escalation di violenza diventa un perno cruciale, non perché sia l’unico fattore implicato nelle dinamiche di violenza di genere, ma in quanto elemento determinante per la reiterazione del fenomeno e importante indicatore di rischio. Ed è anche il primo aspetto sul quale un clinico deve lavorare per scardinare, spesso con molta fatica, ingranaggio dopo ingranaggio, resistenza dopo resistenza, questo meccanismo e, soprattutto, per accedere a un principio di consapevolezza, preludio a una presa di responsabilità. È una delle sfide più difficili per il clinico che lavora con il perpetrator, in quanto quest’ultimo esperisce un forte conflitto interno che mette in discussione il suo senso di identità e i suoi modelli relazionali. 

Questo tipo di lavoro deve essere preceduto da uno preliminare che ogni operatore deve fare innanzitutto su sé stesso per il riconoscimento delle rappresentazioni, delle credenze, talvolta dei luoghi comuni, che co-costruiscono le rappresentazioni sociali sull’uomo violento e che può avere inconsapevolmente interiorizzato. La comorbilità con malattie psichiatriche e tossicodipendenze oppure le ipotesi di causalità lineare tra episodi di violenza assistita o subita durante l’infanzia e i comportamenti violenti nella vita adulta sono sicuramente spiegazioni implicate in tante storie di violenza di genere, ma non esauriscono tutte le casistiche di un fenomeno trasversale a ceti sociali e a civiltà. Nel 2019 il progetto europeo Engage ha pubblicato la “roadmap per operatori di prima linea che interagiscono con uomini autori di violenza domestica e abuso”, nella quale questo step di autoconsapevolezza sul filtro con il quale si osserva la violenza viene indicato come fondamentale nella formazione di tutti gli attori (psicologi, psichiatri, medici, infermieri, assistenti sociali, agenti di polizia, amministratori) coinvolti nel contrasto del fenomeno. Solo riconoscendo che la violenza è parte di noi, che è parte di tutti, solo toccando le risonanze che queste storie di violenza sollecitano e imparando a maneggiarle, è possibile per un clinico consolidare una relazione di aiuto con il perpetrator che non sia giudicante e respingente, incorrendo nel rischio di antagonizzarlo. Al contempo, si deve fare attenzione a non colludere con le sue difese, che lo pongono in una posizione di vittima, perché si incorre il rischio ancora più pericoloso di non attivare il processo di consapevolizzazione e quindi di assunzione di responsabilità. 

Il lavoro clinico con il perpetrator, per alcuni step analogo e parallelo a quello con la vittima, prevede in entrambi i percorsi innanzitutto un disvelamento del diniego, cui segue la messa in sicurezza delle vittime coinvolte, il riconoscimento delle dinamiche emotive implicate nell’escalation di violenza che passa per la rinarrazione della propria storia di vita, l’assunzione di responsabilità e l’allargamento della gamma di possibilità, sia comportamentali che relazionali. Questo lavoro sugli individui e sulle coppie sarebbe ancora più efficace se si riuscisse a fare un lavoro analogo sui macrosistemi nei quali si genera la violenza, nonché la violenza di genere, a partire dal diniego che isomorficamente avviene anche a livello sociale. Per Stanley Cohen anche il corpo sociale agisce infatti il diniego, rimuovendo e cancellando dalla memoria collettiva le sofferenze e le ingiustizie che vengono commesse da una parte sociale nei confronti di un’altra. Anche qui la lente del diniego permette di spiegare non solo perché gli uomini maltrattanti neghino innanzitutto a se stessi, oltre che agli altri, le loro azioni, ma dà un senso anche agli intenti riparativi delle vittime di violenza verso chi li maltratta e all’ambivalenza delle narrazioni mediatiche che riescono a parlare degli uomini autori di violenza solo nell’accezione di mostri o folli, eliminando la possibilità che sia stato un uomo (non un mostro) a commettere la violenza. Nel saggio Verso una clinica delle macroecologie, riprendendo alcuni temi dell’epistemologia batesoniana, lo psicoterapeuta Giovanni Madonna ipotizza che i grandi sistemi viventi, i quali includono la civiltà umana (appunto le macro-ecologie del titolo), possono ammalarsi esattamente come gli individui. Nello specifico, i gruppi sociali possono ammalarsi quando si formano troppo rapidamente nuove abitudini di pensiero o quando si perdono troppo velocemente vecchie abitudini di pensiero. La violenza di genere, intesa come malattia sistemica e non soltanto come fenomeno individuale e di coppia, può essere considerata come un esempio recente di questa difficoltà di adattamento del pensiero ai cambiamenti socio-culturali, in particolare a quelli che negli ultimi decenni hanno riguardato le rappresentazioni dei ruoli di genere e la complementarietà tra di essi, un tempo stereotipata. Sfida comunitaria della psicologia clinica –  e probabilmente sua responsabilità – è attivamente intervenire nel dialogo sui conflitti e sulle tensioni generati da questi cambiamenti, allestendo le condizioni che favoriscano nuovi equilibri intrapsichici, interpersonali e sociali tra i generi e riconoscendo nel maschile tanto la quota di responsabilità che ha nel problema, tanto  le possibilità di risorsa che possono elicitare un cambiamento.

Sitografia

https://www.doppiadifesa.it/wp-content/uploads/2023/08/dossier_viminale_ferragosto_2023.pdf

https://www.work-with-perpetrators.eu/fileadmin/WWP_Network/redakteure/Projects/ENGAGE/Final_roadmaps/engage_ITA_191129_web.pdf

Bibliografia

AVV, Il lato oscuro degli uomini. La violenza contro le donne: modelli culturali di intervento, Ediesse, 2017

Deriu Marco, a cura di, Il continente sconosciuto. Gli uomini e la violenza maschile, Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2012

Madonna Giovanni, De Martino Martina, Verso una clinica delle macroecologie, Franco Angeli, 2017

Novelli Marco, Soffro dunque siamo, Minimum Fax, 2023