Esitazione: perché, ehm, è sempre, uhm, presente nei nostri discorsi?

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Il ruolo dell’esitazione nella comunicazione orale: la portata delle pause e degli inciampi mentre parliamo.

Pensate all’ultima pausa che avete fatto parlando. Trovata? È facile. Si presentano due o tre volte al minuto nel linguaggio naturale, circa sei volte ogni cento parole. È la frequenza media degli ehm, uhm, eh, le cosiddette pause piene, che popolano le nostre conversazioni. Per molto tempo ignorate, o classificate come semplici “disfluenze” dai linguisti e dagli psicologi, queste componenti del discorso conoscono ora una nuova fase di studio e considerazione scientifica.

In quasi tutte le lingue, inclusa la lingua dei segni, esistono versioni di queste pause, che svolgono una o più funzioni. Quando leggiamo, comprendiamo il significato di una parola attraverso il contesto. Ma quando parliamo, ci sono livelli più complessi che aggiungono significato: il tono della nostra voce, la relazione tra chi parla e chi ascolta, le aspettative su dove una conversazione può portare.

È lì che le pause piene entrano in campo: sia per aiutare l’oratore, sia per facilitare l’interlocutore.

Ad esempio, se una pausa di silenzio può essere interpretata come un segno per l’altro che è lecito intervenire, una pausa piena può segnalare che non abbiamo ancora finito di parlare. Ci permette di prendere un breve tempo per scegliere la parola opportuna o per riordinare il pensiero.

Gli scienziati hanno rilevato che queste pause si posizionano più spesso davanti alle parole a bassa frequenza, cioè quei termini che nel linguaggio comune utilizziamo più raramente. Se non abitiamo nei paesi del nord, un esempio di parola a bassa frequenza può essere “banchisa”, mentre una parola ad alta frequenza è universalmente “casa”. Nella costante operazione di adattamento tra chi parla e chi ascolta, una pausa piena fa sapere all’ascoltatore che una parola importante è in arrivo: la probabilità di ricordarla aumenta se la parola è pronunciata dopo un’esitazione.

I fenomeni di esitazione non sono le uniche parti del discorso che aggiungono significato durante il dialogo. Parole e frasi come “sai”, “vedi”, “pensa che”, “voglio dire”, funzionano come indicatori del discorso e aiutano l’ascoltatore a seguire il nostro processo di pensiero, a interpretarlo e a prevedere ciò che diremo. Come dei cartelli stradali di conversazione, sono utili non solo per comprendere il linguaggio: aiutano anche a impararlo.

Diversi studi hanno dimostrato che le pause piene inducono i bambini ad aspettarsi parole nuove, come se li avvisassero che devono prestare più attenzione.

In questo modo, li aiutano a collegare nuove parole a nuovi oggetti. Da adulti, continueranno a usare queste pause nella conversazione: perché, contrariamente a quanto si crede, l’uso di pause piene non diminuisce con la padronanza di una lingua. Vale anche nel caso in cui si impara una seconda lingua. E forse in futuro scopriremo che queste modalità sostengono sia la relazione sia l’apprendimento e vengono conservate per questo, di generazione in generazione, nel nostro linguaggio.

 La prossima volta che un “ehm” si infilerà in un vostro discorso, invece di spazientirvi, pensate alla sua utilità e alla potenza relazionale di una piccola esitazione. E sorridete.