Fase 2. Non è un paese per vecchi. No, l’Italia decisamente non è un paese per vecchi. Eppure…

di Fulvia Ceccarelli

fase 2 paese per vecchi

Durante questa pandemia, di idiozie ne abbiamo dovute sentire tante. La prima, in ordine temporale, è ascrivibile a Boris Johnson. Al primo Boris Johnson, per l’esattezza. Che invitava i cittadini a prepararsi alla perdita dei propri cari, come tributo necessario al raggiungimento fisiologico dell’immunità di gregge nella popolazione. La seconda, è di pertinenza di qualche genius loci nostrano, che suggeriva il ripopolamento, dopo la pandemia, per fasce d’età. Facendo imbizzarrire non pochi ultrasessantenni. Che vengono considerati giovani ed efficienti, quando sono costretti a lavorare fino al compimento del sessantasettesimo anno di età. E paradossalmente decrepiti, tanto da dover essere protetti come una specie in via di estinzione, quando devono uscire per strada; indipendentemente dalle loro condizioni generali di salute. Delle due l’una.

Mi sento di poter affermare che la comunicazione di quanto ci è accaduto in questi ultimi due mesi, da parte delle fonti ufficiali, è stata generalmente lacunosa, frammentaria, costellata di contraddizioni e probabilmente di omissioni. A partire dai dati stessi, per lo più non confrontabili tra loro.  E qui mi taccio.

Veniamo all’Italia. Che, oltre ad avere gli abitanti mediamente più longevi di Europa, ha un numero sempre più elevato di centenari. La maggior parte dei quali vive al Nord. Il che contraddice la vulgata che al Sud si vive più a lungo perché il clima è più mite e i ritmi di vita meno stressanti. Di fatto, sembrano altri i fattori responsabili della longevità, oltre al DNA. E precisamente: la ricerca e il mantenimento di relazioni familiari e sociali profonde, che sconfiggono lo spauracchio della solitudine. Una maggior consapevolezza del proprio stato di salute e quindi la prevenzione, che dipende dall’efficienza delle strutture sanitarie e ospedaliere che la rendono attuabile. Un’attività fisica adeguata e infine una certa disponibilità economica, che permette cure più tempestive. Sappiamo tutti che non dovrebbe essere così, perché il nostro Sistema Sanitario Nazionale ha lo scopo di garantire a tutti i cittadini l’accesso a un’erogazione equa di prestazioni sanitarie. Lo afferma a chiare lettere l’articolo 32 della Costituzione, che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” Se ne deduce che il nostro SSN cura anche i cittadini che non esibiscono la carta di credito, come accade in molte parti del mondo. Tuttavia la recente pandemia ha messo impietosamente a nudo le crepe di un sistema mortificato, fiaccato da troppi anni di politiche miopi, dissennate e predatorie. Dove la priorità non è stata il benessere collettivo ma le logiche di partito. Ciò è accaduto soprattutto nella ricca Lombardia, le cui strutture ospedaliere sono da sempre il fiore all’occhiello della sanità italiana. Quella privata – mi corre l’obbligo di sottolineare. Lombardia che ha pagato il più alto tributo in fatto di vittime. Molte delle quali, circa tremila, nelle Residenze per Anziani. Perché se l’onda d’urto del Covid19 è stata devastante, è pur vero che medici e infermieri hanno dovuto affrontarla impreparati e a mani nude. Mancava di tutto: posti in terapia intensiva, ventilatori meccanici, medicazioni, ossigeno, mascherine e tute protettive. Credo inoltre che un sistema sanitario degno di questo nome non dovrebbe mettere i suoi operatori nella terribile condizione di scegliere quali vite salvare. E non finisce qui. Molte RSA, oltre a non essere state chiuse tempestivamente, hanno anche ospitato un certo numero di pazienti covid convalescenti e forse ancora contagiosi. Che sono stati dimessi dagli ospedali in affanno. Ed è stata un’ecatombe. Tanto che ci sono delle indagini in corso per omicidio colposo plurimo, di cui si occuperà la Magistratura. Personalmente sono convinta che la vita umana abbia un valore intrinseco, che prescinde dall’età anagrafica. Stiamo parlando di persone con una vita e una storia e non di aridi conteggi statistici. Lo affermo senza retorica, quella che certa stampa ha provveduto ad elargirci a piene mani. Laddove un silenzio composto sarebbe stato più rispettoso, sia per le vittime che per i familiari.

Di anziani si parla poco, quasi fossero un esercito di invisibili. E quando lo si fa, si usano toni enfatici. Credo per farci perdonare la generale disattenzione.

In questa cornice vorrei inquadrare un episodio cui ho assistito qualche giorno fa. Edicola. Gente in coda a distanza di sicurezza, con mascherina. Tra le persone in attesa di acquistare il quotidiano, una vecchina curva sul suo bastone. Dignitosa. Felice di prendersi una boccata d’aria  dopo giorni di clausura forzata. La stavo ammirando, quando un commento proveniente dalla retrovie mi ha ferito le orecchie. Perché stonato, inopportuno e offensivo. Ma cosa ci fa quella lì in giro, che neanche si regge in piedi? Avrà pure qualcuno che si preoccupi di comprarle il giornale? Continuano a ripetere che i vecchi devono stare a casa: non ci vuole un genio a capirlo! Un’opera d’arte, insomma. Perché è difficile condensare in due parole un coacervo di luoghi comuni, banalità e mancanza di rispetto. Eppure questo signore ci è riuscito. Le sue considerazioni mi indignano, perché credo che questi grandi vecchi lottino quotidianamente per difendere una vita che sia degna di questo nome. Per mantenere un aspetto fisico decoroso e gradevole alla vista. Perché hanno coraggio da vendere nell’accettare un corpo in declino, che l’età non ingentilisce. Convivendo con la consapevolezza che la vita è agli sgoccioli e che proprio per questo merita di essere vissuta fino in fondo. Non finisce mai di stupirmi la saggezza di quegli sguardi e la fierezza di quelle mani nodose. Balzati fuori dal tempo, rappresentano la nostra memoria storica. La Storia incarnata di questo Paese. Penso ai loro racconti, densi di ricordi. Di un mondo che non esiste più. Destinato a finire con loro. Storie di vita vissuta, narrate con lucidità di pensiero e parole sapienti. Così diversi da quelli dei manuali di storia, in cui la ricostruzione degli eventi è tanto accurata quanto asettica. Un po’ come le fiabe della buona notte che ci venivano raccontate da un nonno, di cui ancora oggi serbiamo un ricordo vivido. Ciò premesso, dura fatica smontare la concezione di Publio Afro Terenzio, secondo cui: senectus ipsa est morbus. E cioè che la vecchiaia sia di per sé una malattia. Questo filone di pensiero raccoglie molti consensi. Basti pensare a quanti “boy scout” si ostinano ad aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. Senza neanche interpellarle. Guardandomi intorno mi accorgo che spesso, nel rapportarci ai grandi anziani, siamo guidati da un atteggiamento iperprotettivo. Tendiamo a trattarli come dei minus quam, dimenticandoci che, a dispetto dell’età, sono ancora esseri pensanti, responsabili di sé e delle loro scelte; curiosi di ciò che il futuro può riservare loro e con una personale idea delle cose del mondo. Non sarebbero arrivati alla loro ragguardevole età, se non avessero un ostinato attaccamento alla vita. Che non li ha mai spaventati. Semmai temprati. Di cui hanno accettato la sfida con coraggio, testa e cuore. Grazie a dei caratteri indomabili e spesso autoritari. Dunque trovo la vulgata che li vorrebbe tutti regrediti allo stadio dei bisogni primari: mangiare, bere, scaricarsi e vedere un po’ di TV demenziale che ottenebra il cervello, davvero poco rispettosa. Perché, se è sempre presuntuoso pensare di sapere quale sia il bene altrui, lo è particolarmente con i grandi anziani. Aggiungo anche che il bisogno insopprimibile di controllarli e di saperli tra le mura domestiche serve soprattutto a placare le nostre ansie. Non raccontiamoci che si tratta solo di affetto. C’è anche tanto egoismo.

Tornando ai nostri giorni. Se è vero che i vecchi sono più esposti a questo maledetto virus, è altrettanto vero che la cattività prolungata innesca una spirale perversa. Più stanno a casa e più si impigriscono. Meno contatti sociali hanno e più si deprimono. Meno si muovono e maggiore è il cedimento fisico. Perché il vero enorme limite della vecchiaia è che il recupero delle forze è molto lento, mentre il declino è rapidissimo. La mia personale esperienza mi suggerisce che incentivarli all’autonomia e all’indipendenza, li costringe a misurarsi quotidianamente con la risoluzione di problemi pratici, mantenendo attivo il loro cervello.