IL CONSUMO DI ABBIGLIAMENTO USATO

Il consumo di abbigliamento usato ormai è una tendenza sempre più diffusa nella società odierna. Esistono innumerevoli piattaforme che consentono di vendere i propri abiti e comprare quelli di qualcun altro. Per citarne alcune ci sono Vinted, Depop, Rebelle, Vestiaire Collective…

Ma perché i consumatori sono sempre più propensi ad acquistare abbigliamento usato rispetto al passato? A livello psicologico entrano in gioco diversi fattori. 

Alcuni di questi sono sicuramente economici in quanto comprare second hand consente sia di risparmiare sia di sperimentare una soddisfazione maggiore grazie alla possibilità di ottenere un articolo di valore a un prezzo minore. 

Un altro driver che ha incrementato contribuito il diffondere questa tendenza è il bisogno di unicità. Infatti, secondo la teoria del sé esteso di Belk, l’abbigliamento è un modo per esprimere parti del proprio sé e della propria identità. Inoltre, il mercato second hand è spesso caratterizzato da pezzi unici per modello e taglia e molto raramente se ne trovano di simili. 

Esiste anche un aspetto ludico-creativo che porta il consumatore ad essere più soddisfatto nel vendere e nel comprare abiti di seconda mano. È il cosiddetto fenomeno della “scoperta della chicca”, che si riesce a trovare nelle confusionarie bancarelle di mercatini usati oppure sulle piattaforme online. 

Infine, si trovano anche dei fattori più etici basati su preoccupazioni di carattere ecologico e sull’interesse alla sostenibilità, altro trend sempre più diffuso nelle giovani generazioni.

Tuttavia, tutti questi fattori psicologici spiegano solamente in parte il fenomeno dell’abbigliamento second hand. Per comprenderlo più a fondo è necessario considerare le sue origini storiche. La storia dell’abbigliamento può essere suddivisa in tre grandi periodi. 

Dall’epoca premoderna alla fine del Settecento, in tutti i ceti sociali era molto diffusa una mentalità improntata al recupero degli oggetti al fine di tramandarli alle generazioni successive. In particolare, i vestiti venivano custoditi perché considerati investimenti importanti così da poterli donare di generazione in generazione. Per le classi più povere erano una vera riserva di valore, cosa che ora sarebbe assurdo pensare.

Dalla fine del Settecento alla prima metà del Novecento si rovescia la mentalità precedente a seguito di cambiamenti culturali causati dalla filosofia illuminista (che considerava tutto il vecchiume da buttare) e a seguito dei progressi in ambito tecnico-scientifico che hanno accelerato i tempi di produzione delle merci. Inoltre, la Rivoluzione Industriale ha portato un arricchimento del ceto medio che li ha sempre più spinti ad acquistare beni nuovi, come simbolo del nuovo status sociale raggiunto. Dunque, il consumo di abbigliamento di seconda mano diminuisce rispetto al periodo precedente. A fine Ottocento, però, a seguito delle enormi produzioni di massa si è consolidato il legame tra abbigliamento usato e carità. 

Dalla seconda metà del Novecento fino ad oggi si è assistito a un ulteriore cambio. In particolare, nel Novecento indossare vestiti usati era diventato un modo per esprimere la propria distanza rispetto alla cultura dominante. Questo apparteneva molto al mondo hippie, nel quale si può vedere una forte spinta anticonformistica. Invece, per altri è diventato sempre più segno di ricercatezza e distinzione come nel caso del vintage. Negli ultimi decenni, infine, la seconda mano è diventato sinonimo di consumo etico e sostenibile.

Oggi tutti questi fattori sono molto più in linea con i valori emergenti nel periodo post-crisi, dove i consumatori sono sempre più disposti a riconsiderare la propria relazione con i beni di consumo abbracciando una maggiore frugalità.

È sbagliato pensare che la frugalità sia una decisione legata al risparmio, ma in realtà è una scelta di stile e buon gusto. Alla base degli orientamenti frugali, si assiste a un vero e proprio ripensamento della relazione con gli oggetti di consumo.

Se nella prima metà del Novecento, l’oggetto di consumo si configurava come marcatore identitario, ad oggi non è più tanto così. La ripresa del consumo di abbigliamento usato ne è un esempio cardine.

BIBLIOGRAFIA

Lozza, E. &, Fusari, G. (2019). Psicologia del senza: nuovi modelli di consumo, nuovi consumatori e prodotti “senza”. Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo s.r.l.