IL DISCORSO TERAPEUTICO: IL RICORDO

di Alberta Casella

IL DISCORSO TERAPEUTICO: IL RICORDO

In seduta si riferiscono memorie di un antico passato o di avvenimenti recenti.

Per i ricordi lontani, Freud utilizza il termine di ricordi-schermo in cui, su di un nucleo centrale, si sovrappongono esperienze fatte in tempi diversi che, però, si amalgamano al ricordo base diventando un tutto unico.

Infine, questi ricordi subiscono sempre l’influenza e la distorsione del linguaggio che si usa per esprimerli, fino a cristallizzarsi nelle parole usate in modo da trasformarsi da semplici vaghe impressioni in descrizioni che divengono le memorie stesse del soggetto narrante.

Riferendoci alla genesi dei ricordi, alla loro creazione nella mente del paziente, Jung ipotizza l’influenza di fattori simbolici che non derivano totalmente ed esclusivamente dalla storia personale del soggetto, ma sono plasmati ed influenzati dall’inconscio collettivo, una sorta di serbatoio mnestico che collega la storia personale ai miti archetipici dell’umanità e conserva il sapere mitologico fondato su un linguaggio innato della psiche che deriva dalla semplice appartenenza dell’individuo al genere umano.

Jung amplia, così, la teorizzazione di Freud sui contenuti delle memorie del paziente, intendendo la mente umana come serbatoio di forme a priori del sentire e del conoscere e non solamente di contenuti specifici del soggetto.

Tale influenza e mescolamento tra le esperienze personali del soggetto ed i residui delle storie mitologiche dell’umanità intera viene definito dallo stesso Jung “amplificazione” e permette di leggere i ricordi, i sogni, le associazioni, riferite in seduta, non solo attraverso la spiegazione causale che si può legittimamente rintracciare nella storia del paziente, ma anche e soprattutto attraverso immagini di carattere innato che rivelano un’eredità specifica della specie.

Tale spiegazione risulta necessaria soprattutto quando lo psicologo si trova a dover analizzare ricordi riferiti dal paziente in modo caotico e spesso sconnesso, difficilmente collegabili alla storia raccontata fino a quel momento nel corso della cura; probabilmente, il ricorso all’amplificazione riuscirà a dare un quadro più completo ed esaustivo per l’analisi dei contenuti che il soggetto vuole esprimere.

Non ultimo, lo stile usato dal paziente cambia a seconda del ruolo che egli attribuisce al terapeuta: tutto ciò che egli dice ha il fine d’influenzare l’immagine che il terapeuta ha di lui. Parlerà, quindi, per essere compatito o lodato, le sue parole saranno moneta di scambio per ottenere quello che vorrebbe nel presente ed in tal caso questi resoconti non hanno niente del suo reale vissuto, che probabilmente potrà comparire solo quando tale rapporto transferale verrà in parte neutralizzato ed i vincoli della conversazione s i allenteranno.

Può accadere, anche, che il paziente riferisca un nuovo ricordo come collegamento tra due altri isolati al solo al fine di essere meglio compreso dall’ascoltatore e da lui apprezzato interferendo, così, definitivamente sull’immagine, tutt’altro che storicamente vera, che il terapeuta si sta facendo della sua vita; è possibile, infine, che l’interpretazione decisiva dell’analisi sia basata proprio su quel ricordo inventato probabilmente perché tanto appropriato e suggestivo.

È interessante sottolineare come il discorso che scaturisce dalla relazione terapeutica sovverta tutte le regole fondanti di un colloquio condotto nella vita quotidiana: in una normale conversazione regna la regola, per tacito assenso delle parti, di non deviare dal tema rilevante del discorso, pena la disapprovazione, il fraintendimento o la confusione dell’altro che ascolta.

Nel discorso analitico, invece, il paziente viene spinto a divagare per cui è facile che si verifichino fraintendimenti e modi diversi di intendere una stessa frase.

Il terapeuta che non chiede di chiarire una parola non capita, che non interferisce nello scorrere della catena associativa, è costretto continuamente a fare costruzioni personali al fine di trarre un senso da quanto ascoltato e può capitare che, in seguito, perda di vista quanto, in quella provvisoria, vi era di suo e quanto apparteneva ai ricordi del paziente.

In conclusione, quindi, ascoltare è un processo attivo di costruzione dell’evento narrato e non, come desiderava Freud, un processo passivo di ricostruzione di un passato che deve semplicemente essere ritrovato, riscoperto.

Le teorie post-freudiane hanno enfatizzato maggiormente il ruolo dell’interazione paziente-analista e la narrazione subisce l’influenza di tale scambio continuo tra le parti.

BIBLIOGRAFIA

  • JUNG C.G. (1958): Un Mito Moderno: le Cose che si Vedono in Cielo, in Opere, vol. X, tomo II.
  • JUNG C.G. (1959): Introduzione a Toni Wolff, “Studi sulla Psicologia di C. G. Jung”, in Opere, vol. X, tomo II JUNG C. G. (1917-43): Psicologia dell’Inconscio, in Opere, vol. VII.
  • FREUD S. (1915-17): Introduzione alla Psicoanalisi. I e II Serie di Lezioni, Boringhieri, Torino, 1969.