L’assessment Terapeutico o collaborativo: origini e struttura di una nuova tecnica

di Gaia Cassese

Introduzione

Nel mio breve percorso p o s t – universitario, mi sono imbattuta in pareri contrastati e sguardi diffidenti circa l’utilizzo dei test psicodiagnostici, che sono di gran lunga ancora appannaggio di Servizi Sanitari pubblici o dell’ambito giuridico e peritale. Ancora poco diffusi, specialmente in ambito clinico privato, l’opinione dei professionisti con cui mi sono interfacciata si divide. Da una parte emerge l’ammirazione per la “capacità” di poter ottenere diagnosi precise e immediate, prive di incertezze e dubbi in cui potrebbe incorrere l’occhio nudo dello psicologo, e la valutazione psicodiagnostica si pone in questo contesto come un facile tentativo di liberarsi dall’angoscia dell’ignoto, della complessità del paziente, che porta con sé, specialmente per i giovani psicologi, il fantasma di un mandato sociale detentore di verità immediata sull’altro. D’altro lato il ghigno di chi, vantando una maggiore esperienza, si propone come sostenitore di una diagnosi che, per esigenza d i comunicazione t r a professionisti, nonché di definire linee guida nella comprensione del disagio del paziente, chiude un mondo di possibili significati, guardando piuttosto alla somministrazione dei test come una valutazione violenta, un incasellamento ed una categorizzazione della realtà in poche etichette diagnostiche e comunicative.

Dal mio punto di vista, uno schieramento di tal genere porta con sé una diversa problematica a monte: una ancora forte incertezza e mancanza di conoscenza circa l’obiettivo in contesto clinico, e specialmente in quello privato, d e l l ’ u t i l i z z o della testologia. In p a r t i c o l a r e , i n u n a d o m a n d a provocatoria, chiedo: ma i test psicodiagnostici servono davvero a formulare una diagnosi?

Emerge, a questo punto, la necessità di partire dalle origini: ma cosa intendiamo per diagnosi? Diagnosi proviene dal greco dia (at t raverso) e gnosis (conoscenza), un’etimologia che richiama ad una conoscenza del paziente che va ben oltre l’esigenza di u n ’ e t i c h e t t a comunicativa e d i presentazione della sintomatologia dell’individuo. Tale concezione di diagnosi richiama la curiosità e l’interesse profondo che lo psicologo prima, e il terapeuta poi, possono mostrare nell’esplorazione di ciò che il paziente porta nella stanza e, quindi, nella e attraverso l a relazione terapeutica. Quindi diagnosi non come semplice ricerca del sintomo, quanto un “conoscere attraverso” la complessità dell’animo umano che necessariamente promuove un infinito mondo di significati verso non solo la conoscenza dei limiti, ma che si rivolge soprattutto alle risorse, al contesto, ai punti di forza ambientali e personali che saranno alleati di un percorso di conoscenza del sé ed evoluzione del paziente. Questa c o n c e z i o n e p e r d e l ’ i d e a d i incasellamento a favore di un recupero di quanto c’è di più profondo e nobile nella nostra professione, un concetto trasversale che accomuna tutti gli orientamenti psicoterapeutici: l’interesse per la relazione.

È solo in seguito alla definizione di questa cornice teorica ed etimologica che l’utilizzo dei test, nella pratica clinica privata, si pone come un potente strumento alleato del processo terapeutico. Ed è abbracciando pienamente questo contesto che a partire dal 1980 Stephen E. Finn conia il termine di Assessment Terapeutico (S. E. Finn, 2007).

L’ a s s e s sme n t Te r a p e u t i c o o collaborativo: le origini.

L’assessment terapeutico è un approccio alla valutazione psicologica sviluppato da Stephen E. Finn in collaborazione con i colleghi (1), frutto di una riflessione attenta e continua sulla pratica e l’intervento con numerosi e differenti g r u p p i d i p a z i e n t i . N a t o i n contrapposizione a i l i m i t i della valutazione psicologica tradizionale, il metodo affonda le radici all’interno del modello intersoggettivo (2) sviluppato da Stolorow, Atwood e Brandcraft (1996), basato sulla psicologia fenomenologica e articolato nell’ambito dell’assessment da C. Fisher. Secondo la teoria dell’intersoggettività, il “sé” non può essere considerato come un insieme di caratteristiche stabili e ben distinte del soggetto, bensì vanno studiate e approfondite nella piena consapevolezza della loro dipendenza dal sistema interpersonale in cui sono osservate e “misurate”. Ne deriva chiaramente che l’obiettivo di ottenere misure oggettive di un tratto di personalità è limitato e pronto a d e l u d e r e l e a s p e t t a t i v e d e l somministratore. Questo succede in primo luogo perché, spiega Finn, i comportamenti del paziente avvengono sempre in un determinato contesto che rinvia specifici feedback; in secondo luogo il somministratore volgerà la propria attenzione verso alcune sfumature dei risultati testologici piuttosto che altre, influenzato da quello che è il proprio set di valori e la sua storia personale; infine, nessuno potrà mai conoscere appieno fino a che punto si estende la portata del proprio contributo al contesto interpersonale. Cosa possiamo quindi fare da giovani psicodiagnosti? Certamente essere aperti e curiosi a tali fattori e fenomeni nel contesto di assessment.

Infatti, quello che ad un approccio valutativo tradizionale si presenta come un insormontabile ed inevitabile ostacolo da governare il più possibile, mediante la neutralizzazione dell’intervento del somministratore, diviene per lo psicologo esperto una consapevole opportunità per giocare nella relazione, e l’assessment si pone come un primo potentissimo strumento. Sebbene, infatti, l’autore presenti il proprio approccio in una serie di passaggi-guida molto pratici e precisi, l’assessment terapeutico è piuttosto da considerarsi come un modello di pensiero che richiede allo psicologo di movimentare le proprie risorse creative, intuitive e soprattutto empatiche nei confronti del paziente. I requisiti indispensabili sono: una profonda conoscenza e comprensione dei test, e la capacità di <<entrare nei panni dei nostri pazienti>> profondamente (Finn, 2007).

Inoltre, S. Finn distingue un assessment terapeutico collaborativo da quello non collaborativo. Mentre quest’ultimo consta di una valutazione psicologica “sul” paziente, il primo, caratteristico del metodo in questione, si fonda su un presupposto di fondamentale importante: una profonda fiducia nel paziente come unico conoscitore del proprio disagio e del proprio contesto. Ne deriva che egli viene attivamente coinvolto in tutte le fasi del modello valutativo: definire l’obiettivo o gli obiettivi della valutazione, osservare e definire le risposte e i comportamenti ai test, capire i l s i g n i fi c a t o d i t a l i r i s p o s t e e c o m p o r t a m e n t i , e l a b o r a r e raccomandazioni o percorsi utili, redigere una documentazione di sintesi di quanto emerso e successo all’interno del breve percorso affrontato insieme. I risultati, ripetiamo ancora una volta, hanno senso solo nella relazione terapeutica in cui sono stati raccolti e accolti.

Le fasi dell’assessment terapeutico

L’assessment terapeutico o collaborativo si presenta come un modello semi-strutturato, le cui fasi si pongono come linee guida e spunti di riflessione e idee a tutti quei professionisti che, dirà l’autore, <<non sono così creativi, intuitivi ed intraprendenti>> (3), offrendo allo psicologo un format che insegna a giocare e “divertirsi” con il paziente in stanza di terapia.

Le sei fasi ideate dall’autore nascono da una forte riflessione sulle esigenze del paziente emerse durante decenni di esperienza pratica, ma anche basate su delle strategie “jolly” molto utili e furbe per lo psicologo. Ad esempio, l’autore prende in considerazione la self-verification theory di Swann (1996, 1997), che mostra di come le persone sono motivate a mantenere stabili le storie o schemi attuali che essi hanno di sé stessi, mentre tendono ad allontanare o a non dar credito alle informazioni che contrastano con la propria storia. Da questa consapevolezza ne deriva che includere il paziente nella costruzione degli incontri di valutazione ci aiuta a focalizzare i punti da cui possiamo partire nella presentazione dei risultati!

Le fasi possono tuttavia essere modificate, invertite o omesse a seconda delle esigenze del paziente e del contesto con cui si sta operando.

• Step 1 – Sessione Iniziale. La prima sessione si estende durante il primo colloquio conoscitivo tra paziente e psicologo, e consiste nel chiedere e co-costruire, attraverso un’attenta analisi della domanda, quali enigmi, richieste o dilemmi sul proprio sé o sulle proprie relazioni ha condotto il paziente in terapia: tali domande, che solitamente prenderanno la forma di uno o più quesiti centrali generali e di sotto-temi di esplorazione secondari, si pongono come un vero e proprio contratto utente-somministratore, e saranno il focus dell’intero assessment collaborativo. Un buon suggerimento potrebbe essere quindi quello di redarle in forma scritta e rileggerle alla fine della sessione con il paziente per un accordo o l’aggiunta di modifiche. Questo approccio centrato sul paziente ha lo scopo di renderlo curioso d e i p r o p r i p r o b l e m i ( s f a t a n d o immediatamente il mito della delega di responsabilità allo psicologo circa la risoluzione del proprio disagio), riducendo inoltre l’ansia di essere semplicemente sottoposti a valutazione circa le proprie abilità. Per quanto riguarda il clinico, la prima fase permette di cominciare ad individuare gli schemi esistenti del paziente nella decodifica di sé e del mondo, ma anche dove la sua narrazione è più flessibile, lasciando così una porta di accesso per la costruzione, durante la sessione di restituzione, di una narrazione nuova e alternativa.

• Step 2 – Somministrazione dei test standardizzati. La seconda fase ha inizio generalmente già al termine del primo incontro (4), o fissando un successivo appuntamento, ed ha la durata di due o tre sedute, il tempo necessario per somministrare i reattivi scelti. Non esiste i n f a t t i una b a t t e r i a testologica prestabilita: quali reattivi somministrare dipenderà d a l l e conoscenze e competenze dello psicologo nei test, nonché dalle domande che sono emerse dalla prima sessione. In questa fase si sbizzarrisce l a c r e a t i v i t à dello psicodiagnosta, nella scelta degli strumenti che aiuteranno a rispondere ai quesiti costruiti con il paziente. Per questo motivo, i n f a t t i , l ’ a u t o r e r a c c o m a n d a d i c o m i n c i a r e a somministrare prima di tutto i test che sono percepiti anche dallo stesso paziente come più vicini alla domanda centrale dell’assessment e, solo in un secondo momento, collezionare i risultati che, in quanto cl inici , r i teniamo ugualmente necessari al nostro lavoro. In questo modo ridurremo ulteriormente i l fantasma d i valutazione che l’assessment porta inevitabilmente con sé, mostrando il processo come piuttosto una ricerca attiva di informazioni per portare a compimento quanto accordato n e l c o n t r a t t o . D u r a n t e l a somministrazione di ogni reattivo è importantissimo notare eventuali atteggiamenti e comportamenti salienti che, in quanto esperti clinici, intuiamo essere strettamente legati agli schemi ricorrenti dell’utente. Prevediamo infatti sempre un momento di inchiesta successivo ad ogni somministrazione per confrontarci con il paziente su com’è stata l’esperienza testologica (5). Questo momento di confronto successivo è fondamentale per cominciare a “co-edi tare” e tes sere le fi la del la ricostruzione della storia del paziente.

• Step 3 – Sessione di intervento. La terza fase ha un obiettivo tanto complesso quanto di impatto per l’intero intervento: quello di evocare, nella stanza di terapia, un episodio di difficoltà direttamente legato alla domanda del paziente, per facilitare un momento di consapevolizzazione circa i propri schemi ed aiutare a costruire risposte alternative adattive alla situazione. Il clinico può infatti, a questo punto dell’intervento, utilizzare le informazioni provenienti dai test e dagli incontri per individuare un focus significativo su cui volgere l’attenzione della sessione, guidato chiaramente dalla definizione di una ipotesi del problema, ma sempre pronto a modificarlo sulla base dei feedback del paziente durante l’incontro. La sessione di intervento richiede quindi allo psicologo di mobilitare tutte le proprie risorse creative, intuitive, immaginative nonché teoriche, per progettare il modo in cui far emergere il quesito in-vivo nella relazione. Finn non pone limiti all’immaginazione: possono essere utilizzati test o anche solo parti di test ritenuti utili all’obiettivo, ma anche qualsivoglia tecnica presente nella valigetta degli attrezzi personali dello p s i c o l o g o , come r o l e p l a y i n g , psicodramma, esercizi immaginativi o corporei. Sarà il clinico a decidere come r a g g i u n g e r e ( c e r t a m e n t e professionalmente) il proprio scopo. L’autore fattorializza quindi i diversi passaggi e suggerimenti da tenere presente nella conduzione della sessione di intervento: 1. Selezionare il focus della sessione (tra le domande costruite con l’utente) ed organizzare gli strumenti e la seduta per elicitare la difficoltà o lo schema comportamentale in-vivo 2. Introdurre la sessione spiegando su cosa si intende lavorare e concentrarsi durante la seduta 3. Elicitare, osservare e nominare il problema comportamentale, definendolo più volte. Sarà utile invitare il soggetto ad osservare la situazione, utilizzando certamente le parole del paziente (ancora una volta ci “mettiamo nei panni” del cliente) ma offrendo anche parole significative alternative, più sane e adattive, portavoce della promozione di nuovi significati inesplorati. 4. Esplorare il contesto che ha sancito il problema comportamentale. Ci chiederemo e renderemo la relazione consapevole di: quali sono i fattori necessari ad elicitare lo schema disadattivo? Cosa lo rinforza e lo mantiene? In quali origini affonda le radici la costruzione di questo schema? 5. Immaginiamo insieme soluzioni o risposte alternative al problema elicitato e testiamole in-vivo. Anche qui potremo certamente utilizzare, se necessario, diverse tecniche psicologiche che riteniamo opportune. 6. Discutere di come generalizzare le nuove strategie e consapevolezze dalla stanza dello psicologo ai contesti di vita del soggetto. È chiaro che possiamo decidere di ripetere la sessione di intervento nel caso in cui nel contratto co-costruito siano presenti più domande centrali, o sentissimo la necessità di chiarire ciò che è emerso dalla situazione di somministrazione dei test. In alcuni casi, invece, potremmo decidere di omettere totalmente la sessione di intervento. Può succedere, ad esempio con pazienti i cui schemi non sono particolarmente complessi e radicati, di poter giungere alla definizione di strategie alternative già durante il momento di confronto successivo alla somministrazione dei test (Step 2): valuteremo quindi s u p e r fl u a l ’ i m p l e m e n t a z i o n e dell’intervento.

• Step 4 – Sessione di discussione. Nella fase quattro ci concediamo con il paziente un ultimo incontro finale per discutere di quanto avvenuto negli step precedenti. Per far ciò, Finn ci regala chiare e originali strategie da seguire per come ordinare e organizzare le informazioni in modo che appaiano quanto più utili e fruibili al cliente e dalla relazione terapeutica. In particolare, l ’ a u t o r e s u g g e r i s c e d i p a r t i r e presentando come primo livello di risultati tutte quelle informazioni e caratteristiche che fanno già parte e confermano l’immagine che il paziente ha del proprio sé (6). Solo esaurito questo livello potremmo passare a quello successivo, ovvero a quegli aspetti emersi dalla valutazione che riformulano o ampliano i modi di pensiero abituali verso sé stessi, introducendo e ridefinendo aspetti e sintomatologie di cui il paziente si è reso già consapevole (7) (ad esempio ridefinendo uno stato di “stanchezza” che l’utente ci comunica, se opportuno, con uno stato di “ansia” o “mancanza di motivazione”). Solo in ultimo lasciamo spazio a quelle concezioni che sono in aperto conflitto con gli schemi attuali del proprio sé. Ricordiamo che non stiamo presentando una serie di asettici risultati in modo unilaterale: stiamo scrivendo e riscrivendo una narrazione stavolta più completa, nuova, alternativa della storia o quantomeno di una parte di storia del paziente. È quindi inevitabile richiamare la partecipazione attiva di quest’ultimo chiedendo esplicitamente se è d’accordo con i risultati, in disaccordo, se rivedrebbe degli aspetti anche mediante l’uso di esempi concreti di ciò che sta dicendo. Ricordiamo, infatti, che assunto fondamentale del metodo è una piena fiducia al paziente: chi meglio di lui può offrire informazioni sul disagio portato in terapia?

• Step 5 – Presentazione scritta dei risultati. In un percorso che pone costantemente al centro la relazione terapeutica, una asettica copia di un report psicodiagnostico su carta intestata dello studio non può certo prefigurarsi c o m e l a c o n c l u s i o n e i d e a l e dell’intervento. La prassi ideata da Finn e colleghi volge naturalmente verso la stesura di una lettera indirizzata in prima persona al nostro interlocutore, il paziente, in cui scriviamo (anzi, r i s c r i v i a m o e , i n e v i t a b i l m e n t e , risignifichiamo nuovamente, forti dell’esperienza degli incontri insieme) il percorso fin qui definito: le domande che sono entrate a far parte del contratto i n i z i a l e , n o n c h é l e n u o v e consapevolezze, i nuovi spunti di riflessione o finanche ulteriori quesiti e propositi che hanno coronato la sessione di discussione. La narrazione sta così prendendo vita in una tangibile forma scritta e permanente del modello. In realtà “permanente” fino ad un certo punto: al paziente verrà lasciata la libertà di commentare, modificare, co-editare e finanche ri-editare la lettera risultante dall’intervento.

Step 6 – Sessioni di Follow up. Questa fase è l’ultima aggiunta ad uno strumento che si è man mano formato e modificato nell’arco di più di un ventennio e tutt’oggi ancora. Prevedere delle sessioni di follow-up è stata una scelta guidata inizialmente dalla stessa richiesta dei pazienti, e si è resa prassi quando ci si è pian piano accorti della portata terapeutica dell’intervento di assessment. Si procede comunicando all’utente che molte persone trovano utile fissare un nuovo incontro a distanza di due o tre mesi, in seguito cioè al tempo necessario, dopo l’intenso percorso insieme, per poter riflettere sulla narrazione condivisa e provare ad implementare le nuove strategie previste, valutandone le difficoltà o i cambiamenti positivi. Nella sessione di follow-up si propone quindi un nuovo “pensare su”, per poter rafforzare o, al contrario, modificare la traiettoria definita. Durante la costruzione e l’aggiunta delle diverse fasi-guida del metodo di assessment collaborativo, S. Finn e i colleghi si rendono conto dell’eco terapeutico dell’intervento, tanto da cominciare a pensarlo e definirlo come un vero e proprio intervento psicologico breve.

1.4 L’assessment terapeutico o collaborativo: un nuovo intervento psicologico breve?

L’assessment terapeutico o collaborativo può essere considerato quindi un approccio psicologico breve? E soprattutto, quali caratteristiche potrebbero renderlo tale? In primo luogo, certamente un intervento di valutazione psicodiagnostica, anche in veste tradizionale, ha il più delle volte benefici indiretti sul paziente in quanto aiuta il professionista o l’equipe sanitaria ad elaborare un piano di obiettivi terapeutici da poter raggiungere mediante la scelta del percorso di cura più opportuno. È ormai assodato e ben risaputo dai p r o f e s s i o n i s t i s a n i t a r i c h e l a comunicazione della diagnosi può avere di per sé una portata terapeutica, se comunicata in modo adeguato, in quanto consiste finalmente nel riconoscimento del disagio per il quale il soggetto si reca in consultazione, e nel restituire in una modalità “digerita”, quindi in una dimensione di cura, un materiale che non aveva trovato altro luogo di espressione se non in una condizione corporea e sintomatologica, personale o ambientale. Possiamo già facilmente immaginare il ritorno benefico e di alleggerimento di un fardello riordinato e condiviso in stanza di terapia. Nel metodo di assessment terapeutico questa dimensione di cura va ancora oltre, abbracciando in parte le tecniche di intervento evidence-based e ampiamnete riconosciute e condivide di psicologia narrativa. Molti pazienti si sentono immediatamente sollevati per il semplice fatto di aver tradotto il proprio tumulto interiore in domande concrete, essere cioè già riusciti a tessere le prime fila e origini del proprio problema. Ma quello che viene appoggiato e creato, insieme nella e attraverso la relazione, è la creazione e ricostruzione della propria storia, letteralmente una narrazione che assumerà una forma scritta, tangibile, ma che stavolta prevede un finale, anzi una molteplicità di finali possibili, aperti, ancora da scrivere. L’assessment terapeutico si pone come tale prima di tutto perché risponde con impatto al principale aspetto che spinge un individuo a recarsi in terapia: sentirsi capiti.

Bibliografia

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Durosini I., Aschieri F. (2021). Therapeutic Assessment Efficacy: A Meta-Analysis. Psychological Assessment, Vol. 33, No. 10, 962–972

Finn S. E. (2007). In Our Clients’ Shoes: Theory and Techniques of Therapeutic Assessment. Psychology Press, New York.

Hanson, W. E., & Poston, J. M. (2011). Building confidence in psychological assessment as a therapeutic intervention: An empirically based reply to Lilienfeld, Garb, and Wood. Psychological Assessment, 23(4), 1056– 1062

Poston, J. M., & Hanson, W. E. (2010). Meta-analysis of psychological assessment as a therapeutic intervention. Psychological Assessment, 22(2), 203–212

Provenzi, L., Menichetti, J., Coin, R., & Aschieri, F. (2017). Psychological assessment as an intervention with couples: Single case application of collaborative techniques in clinical practice. Professional Psychology, Research and Practice, 48(2), 90–97.

Scott D. Churchill (2019), Explorations in Teaching the Phenomenological Method: Challenging Psychology Students to «Grasp at Meaning» in Human Science Research, Journal of Phenomenology and Education. Vol.23 n.55

Note

1.Stolorow, R. D., Atwood, J. E. (1992). Contexts of being: The intersubject ive foundat ions of psychological life. Hillsdale, NJ: Analitic Press. S. E. Finn è molto attivo nella ricerca e nella formazione anche in Italia, con la collaborazione di Filippo Aschieri presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

2.L’ Inter Subjectivity Theory, è una prospettiva psicoanalitica sviluppata da R. Stolorow, G. Atwood e B. Brandcraft a partire dal 1984.

3.Da “In Our Client Shoes” (Finn 2007), p. 66

4.Nella somministrazione, ad esempio, di test autovalutativi come l’MMPI 2 si può chiedere al paziente di compilarlo già al termine del primo incontro, se si ritiene opportuno e se il tempo lo permette.

5.Quali domande porre come input alla fase di inchiesta e dove porre la nostra attenzione ci verrà suggerito dall’esperienza del metodo nonché dalla nostra esperienza clinica, dallo stare nella terapia, con ciò che sta succedendo nel qui ed ora.

 6.I n q u e s t o c a s o i r i s u l t a t i dell’MMPI-2 potrebbero venirci in aiuto, se ricordiamo che il profilo che emerge equivale alla presentazione che il paziente, in quel momento (e ricordiamo che ci stiamo sempre rivolgendo al contesto clinico privato), decide di offrire alla relazione.

7.Qui il Rorschach può porsi invece come soluzione, facendosi portavoce degli aspetti generalmente più inconsci e proiettivi del soggetto.