L’Educazione Emotiva

di Veronica Lombardi

L’Educazione Emotiva

L’educazione emotiva degli individui rappresenta oggi un fertile terreno di dibattito con cui si confrontano tanto la politica quanto la scienza (Elias & Harrett, 2003). Sul piano strettamente politico si va componendo un generale consenso sulla centralità di un’educazione alle emozioni, necessaria per il benessere individuale e sociale, che deve essere inserita all’interno dei piani d’istruzione e formazione come una componente importante delle strategie educative. A livello per così dire applicativo, l’educazione socio-emotiva e le progettualità a essa connesse trovano uno spazio sempre maggiore all’interno della programmazione didattica, innescando anche un dibattito interessante su quale debba essere il terreno di azione di un insegnante rispetto a un tema fortemente connesso con la dimensione intima della persona e non facilmente riconducibile all’interno delle prassi didattiche abituali (Mariani & Schiralli, 2012; Pellai, 2016).Più in generale la salute emotiva è un tema sempre più presente all’interno delle agende politiche di molti Paesi (Watt Smith, 2018), diventando trasversale a molte sfere della vita sociale. Il lavoro, la scuola, la famiglia, ecc. sono ambiti della vita individuale in cui sempre maggiore attenzione viene posta su come possa essere garantito e tutelato il benessere emotivo. Dal punto di vista delle performance lavorative, ad esempio, è data enfasi al benessere emotivo poiché è stato correlato con migliori prestazioni, maggiori capacità di presa di decisione, rapporti più stabili all’interno dello staff, ecc. (Watt Smith, 2018; Goleman, 2005).

Che cos’è un’emozione?

Definire in maniera chiara e univoca che cos’è un’emozione è piuttosto complesso, e questo per una serie di ragioni che verranno di seguito brevemente argomentate. L’emozione può essere analizzata da diversi punti di vista, e letta ed interpretata con metodi differenti. Secondo la prospettiva di un neuro-scienziato essa è rappresentata dall’attivazione dell’amigdala, centro di comando di tutto il sistema emotivo, che manda segnali che sono poi processati nell’ambito del cosiddetto cervello limbico, da cui dipende un’elaborazione emozionale (Odgen & Fisher, 2016). In questa prospettiva l’è un fatto essenzialmente biologico che innesca una varietà di reazioni: aumento del battito cardiaco, rilascio di ormoni, contrazione dei muscoli, ecc. Ma come apprendiamo fin dai primissimi mesi di vita le emozioni non sono solo un fatto biologico, ma anche e soprattutto un fatto sociale. La contrazione dei muscoli, l’allargamento delle palpebre, il rossore sulle gote, da eventi spiccatamente fisiologici si trasformano in messaggi e simboli che trasmettono delle informazioni sui nostri stati d’animo e che comportano delle reazioni in chi riceve tali messaggi. La biologia delle emozioni si incontra presto con i processi evolutivi, culturali e sociali che modellano il modo in cui le emozioni possono e debbono essere manifestate e che, di pari passo, influenzano il modo in cui l’individuo percepisce le proprie emozioni. In questo intreccio tra biologia, società e cultura viene a formarsi una rappresentazione individuale e collettiva di emozione che incide sul benessere della persona. In una società in cui, ad esempio, le emozioni legate alla paura o all’ansia tendono a essere sottodimensionate, se non addirittura represse è possibile che gli individui vivano degli stati d’animo conflittuali che incidono in maniera fortemente negativa sul benessere individuale (Srivastava et al., 2014). Le emozioni sono, dunque, oggetto di un processo di socializzazione e sono influenzate dalle idee portanti, dalle aspettative e dai valori dei gruppi sociali di cui l’individuo fa parte. Si parla in tal senso di culture emotive proprio a voler sottolineare come l’emozione sia a tutti gli effetti un fatto culturale che va a caratterizzare determinati gruppi sociali soprattutto nei modi in cui esprimono, giudicano e rappresentano specifiche emozioni (Watt Smith, 2018). E la pressione culturale influenza enormemente il modo in cui gli individui sentono le emozioni nella misura in cui richiedono di rispettare delle convenzioni sociali (Srivastava et al., 2014). Abbandonando per un momento la dimensione sociale delle emozioni e concentrandosi su quella individuale è interessante fare riferimento al modello differenziale proposto da Izard (1977) nel quale viene sviluppato un set di emozioni di base innate, che sono consustanziali alla natura umana e che vengono vissute dall’individuo in maniera spontanea, come risposta a degli stimoli esterni ben precisi. Con il tempo e l’esperienza, l’individuo impara a gestire queste emozioni, provando a governarle, attribuendone un nome e veicolandole verso l’esterno, attraverso una serie di comportamenti e di messaggi verbali e non verbali. Le Breton (2007) fa notare come pur avendo una capacità innata d i provare delle emozioni, ciò che percepiamo – e il modo in cui reagiamo a queste percezioni – è modellato dall’educazione e dalla storia emotiva personale. In effetti ogni gruppo sociale elabora e trasmette un modello sensoriale, che contraddistingue l’appartenenza al gruppo stesso e che a sua volta plasma un modello emotivo. In questo quadro, l’esperienza, la pratica delle emozioni e il modo in cui sono percepite, espresse e lette permettono all’individuo di sviluppare delle competenze specifiche, portando allo sviluppo di una sorta d’intelligenza dedicata alla conoscenza, gestione ed espressione delle emozioni. Il termine meta-emozione riassume una non meglio precisata capacità – o insieme di capacità – di avere consapevolezza delle proprie emozioni (Goleman, 2005). In questo modello, poi ché appunto considerata come una capacità, è possibile che essa possa essere sviluppata, migliorata, plasmata ed educata. Può esistere, dunque, un’educazione emotiva che passa attraverso lo sviluppo della meta-emozione, fatto attraverso proposte didattiche mirate, in cui la scuola si presenta come un terreno di coltura ideale. Un siffatto intervento educativo deve sviluppare una serie di competenze, tra di loro intrecciate. Occorre sviluppare la competenza nel saper dare un nome alle emozioni, capendo in che modo ognuna di esse vada ad agire sull’equilibrio individuale, e imparando a esprimerle in forma socializzata. È poi necessario sviluppare una competenza di lettura delle emozioni altrui cui si assomma quella di comprensione del modo in cui le emozioni dell’altro interagiscono con le emozioni individuali. C’è infine la componente relazionale fondata sulla competenza di comprensione del ruolo delle emozioni nei rapporti sociali, che procede in stretta cooperazione con la competenza nel saper socializzare un’emozione secondo le modalità che sono proprie del gruppo sociale di appartenenza. La psicologia dello sviluppo riconduce la competenza emotiva a tre aree principali: comprensione, espressione, regolazione (Scheer, 2012). Fin dall’infanzia ogni individuo è capace di provare delle emozioni, ma solo con la crescita e la pratica si riesce a sviluppare la meta-emozione. La fase sensibile di sviluppo di questo insieme di capacità si ha trai 5 e i 10 anni (Goleman, 2005). In questa fascia di età si sviluppano in maniera significativa le aree cerebrali che governano il linguaggio rendendo l’individuo sempre più capace di dare voce agli stati emotivi interiori. Al tempo stesso si sviluppano le competenze sociali essenziali per la vita di comunità e prendono forma e consistenza gli schemi di relazione sociale tra io-altro. La chiave per comprendere le emozioni altrui sta nella capacità di leggere i messaggi che viaggiano su canali di comunicazione non verbale quali il tono della voce, la prossemica, l’espressione del volto, ecc. Lo sviluppo delle capacità di comunicazione non-verbale – in entrata e in uscita – è marcato intorno ai 7-10 anni, periodo d’età in cui questa capacità raggiunge la sua piena funzionalità. È questo il momento ideale in cui stimolare questa capacità affinché possa esprimersi nel pieno delle proprie potenzialità.

L’educazione emotiva a scuola

Una scuola e degli insegnanti che accettano di farsi carico dell’insegnamento dell’educazione emotiva, condividendone l’importanza non solo in termini di rendimento scolastico, e ravvisando la necessità di orientare le proprie prassi didattiche in favore dello sviluppo delle competenze emotive degli alunni, si trovano di fronte il difficile compito di dover ideare e poi realizzare delle proposte didattiche cent rate sul lo sviluppo emotivo. Poiché, come è stato richiamato in precedenza, esistono molteplici modelli sensoriali la cui formazione è influenzata dal contesto culturale, dai vissuti personali, dal contesto scuola, ecc. è difficile poter ipotizzare delle proposte didattiche pronte all’uso. Anzi, è assai probabile che il riferirsi a programmi d’intervento o a proposte di attività o a progettualità costruite a priori, non possa permettere di agire in maniera efficace sullo sviluppo emotivo dei discenti. L’insegnamento dell’educazione emotiva si fonda su prassi circostanziate, orientate dalla situazione specifica, costruite ad-hoc e rispondenti ai bisogni specifici degli individui e del gruppo-classe. In prima istanza deve esserci un insegnamento alla comprensione delle sensazioni corporee che si verificano quando si prova una determinata emozione, ponendo attenzione alla alfabetizzazione emotiva (Pellai, 2016; CASEL, 2013) e favorendo i collegamenti con la dimensione cognitiva dell’esperienza emotiva (Elias & Harrett, 2006; Denham, 1998). Dare un nome alle emozioni e sviluppare un lessico emozionale è il primo passo per comprendere in che modo esse influenzano gli stati d’animo personali e per capire che ruolo hanno nelle dinamiche relazionali oltre che nei processi di costruzione della conoscenza. Su questo specifico piano far sperimentare tecniche di rilassamento e di respirazione profonda, favorendo una presa di contatto tra la mente cosciente e gli stati emotivi interiori è, ad esempio, un ottimo espediente didattico. Soprattutto nella scuola dell’infanzia e nella scuola prima è opportuno favorire la verbalizzazione delle emozioni e l’arricchimento del lessico legato a ciò che si prova a livello corporeo. Di pari passo, a livello didattico, occorre accettare l’idea che i processi cognitivi non avvengono solo nel cervello ma sono un delicato equilibrio tra mente e corpo (Sheer, 2012). E questo è molto evidente nel caso delle emozioni: il corpo, socializzato dal contesto, sente, assieme alla mente, in un rapporto dialogico inscindibile, per cui c’è sempre una dimensione corporea delle emozioni. La sperimentazione di questo rapporto in programmi didattici mirati, permette di migliorare e sviluppare la capacità di percezione tanto del corpo che della mente e di sviluppare competenze nella comprensione delle sensazioni corporee. La scuola dell’infanzia è un terreno di preparazione per l’alfabetizzazione emotiva (Pellai, 2016), mentre nei primi anni della scuola primaria occorre consolidare questo processo affinché gli apprendimenti siano duraturi. È importante in queste fasce d’età favorire la manipolazione del corpo e delle emozioni affinché si possa dar loro una forma intellegibile che può essere compresa, adattata, gestita. Tuttavia, tale tipo d’insegnamento dovrebbe accompagnare il discente lungo tutto il percorso scolastico, vista la natura mobile delle emozioni e i cambiamenti a cui sono soggette. In questo frangente occorre tenere in considerazione, come detto in precedenza, l’influenza che la cultura ha sul modo di percepire ed esprimere le emozioni. In una classe/scuola multi culturale sarebbe auspicabile inserire questo aspetto nella didattica, arricchendo l’alfabetizzazione con le caratteriste delle diverse culture emotive presenti. Specifici approfondimenti potrebbero riguardare il modo in cui la cultura forgia la percezione e l’espressione delle emozioni. Innegabilmente si andrebbe a favorire una maggiore integrazione e si darebbero agli studenti strumenti per la comprensione e il dialogo. Il livello successivo riguarda la componente relazionale delle emozioni. Deve per tanto esserci un insegnamento sulla lettura dei messaggi non verbali, focalizzandosi sulle componenti principali della comunicazione non verbale: tono della voce, gesti, espressione del volto, prossemica. L’espressione delle emozioni si realizza soprattutto attraverso canali comunicativi non verbali che traducono lo stato emotivo interno (ad esempio di collera o d’insofferenza o di altro) in un quadro espressivo esterno visibile, che viene trasmesso all’altro. Risultano particolarmente efficaci quelle proposte didattiche in cui, emotivamente parlando, bisogna star e nei panni dell’altro. Va sviluppandosi in effetti una rilevante letteratura legata agli emotional role-play (Hoffman, 2009) che sembra confermare l’efficacia di tale metodo didattico nello sviluppo delle capacità di comprensione delle emozioni altrui e nello stimolo dei processi di empatia fondati su di un dialogo emotivo. La creazione di un setting protetto e circoscritto in cui poter sperimentare diversi tipi di emozioni in forma socializzata rappresenta un mezzo attraverso cui costruire e modellare competenze sociali necessarie per la vita di tutti i giorni. La possibilità di ricreare situazioni specifiche e, anche all’interno della stessa situazione, di cambiare il ruolo, offre in effetti numerosi vantaggi didattici ed educativi che rendono questo tipo di metodo molto efficace. Se sapientemente integrato all’interno delle pratiche didattiche, il role-play può anche fornire spunti per lo sviluppo di altre competenze come quella di analisi, di previsione, di confronto e di sintesi. È anche un terreno fertile in cui sperimentare e riflettere sulle diverse culture emotive e in cui aprire un confronto e un dibattito sulle diverse forme di percezione e di espressione delle emozioni. La protezione del setting offre, infine, la possibilità di sperimentare anche emozioni più difficili. Sempre lungo questa direttrice, un ulteriore strumento didattico è rappresentato dal cosiddetto dialogo emotivo, utile per favorire la comprensione dei processi di socializzazione delle emozioni (socializzazione emotiva). Il dialogo, che può avvenire nelle forme più diverse – in forma scritta, orale, per mezzo di media particolari o in altro modo – deve poter permettere agli alunni di esprimere le loro emozioni e di esplorare, attraverso il confronto e il dialogo con l’altro, in che modo esse influenzano i comportamenti e i rapporti sociali (Eksi, 2013). Attraverso il dialogo emotivo è, inoltre, possibile ricreare all’interno del gruppo classe un ambiente aperto e sicuro, i n cui sperimentare le emozioni, costruire delle norme di espressione e formare delle relazioni positive tra pari (Hamre & Pianta, 2006). Il dialogo emotivo favorisce anche l’instaurarsi di un clima classe favorevole agli apprendimenti e incentrato sul benessere dell’alunno. La socializzazione delle emozioni non deve, comunque, far dimenticare che l’esperienza emotiva è soprattutto individuale, per cui ognuno deve poter essere messo nelle condizioni di sviluppare, in forma autonoma, la propria capacità emotiva, secondo tempi e modalità che sono soggettivi. Dal punto di vista dell’approccio didattico, trasversalmente a tutte le attività, dovrebbe esservi un atteggiamento positivo e aperto da parte di tutti gli insegnanti verso l’uso di strumenti didattici e la messa in opera di prassi finalizzate alla riflessione sulla esperienza emotiva personale, affinché gli alunni possano sviluppare una solida competenza e una coscienza emotiva. Dovrebbero imparare a comprendere in che modo le emozioni aggiungono valore alla vita e alle relazioni influenzando il modo in cui si stringono legami con gli altri o i giudizi delle esperienze di vita che vengono vissute. L’educazione emotiva non dovrebbe essere circoscritta all’interno di specifici momenti di riflessione sulle emozioni – che pure devono essere presenti – ma deve andare a rappresentare uno degli elementi centrali del rapporto tra insegnanti e alunni (Hyson, 2004). Di sovente l’educazione emotiva (e quella sociale) viene richiamata come possibile risposta alle difficoltà di gestione dei casi problematici. È innegabile che interventi fondati sulla comprensione, la regolazione e l’espressione delle emozioni possano risultare efficaci per la realizzazione di interventi mirati, volti ad agire su casi specifici. Tuttavia, questa importante funzione strumentale non deve limitare la portata di questo tipo di educazione che va sviluppata in modo capillare su tutto il curriculum scolastico e su tutto il gruppo classe. Un’educazione emotiva efficace passa attraverso una pianificazione trasversale a tutti gli insegnamenti e attraverso una rete capillare di monitoraggio degli stati emotivi individuali e collettivi. L’insegnamento dell’educazione emotiva a scuola, dal punto di vista didattico, deve, poi, fronteggiare una serie di barriere che ne possono precludere l’attivazione. La prima è legata alla tempistica: un vero processo di sviluppo della componente emotiva degli alunni richiede infatti un tempo difficilmente compatibile con la normale scansione del tempo scuola. Tra l’altro, in maniera più marcata rispetto ad altri apprendimenti, i livelli e i tempi di sviluppo della componente emotiva all’interno del gruppo classe sono molto variegati. In aggiunta a questa difficoltà c’è poi anche una certa resistenza da parte delle famiglie, non sempre disposte ad accettare quella che viene percepita come un’intrusione nella parte più intima dei propri figli (Pellai, 2016). Nello stesso tempo, tenuto conto delle enormi differenze che separano le norme di espressione dei vari gruppi sociali, non è possibile definire un modello di educazione emotiva da applicare in ogni contesto. L’educazione emotiva – ma l’educazione in genere – non è un processo esclusivamente scolastico, e ne consegue che esistono istituzioni che, sulla sfera emotiva, sono in concorrenza con la scuola. Nella maggior parte dei casi le istituzioni extra-scolastiche agiscono secondo schemi non convenzionali per cui l’educazione emotiva si realizza per lo più in forma implicita. Per un insegnante di scuola risulta difficile ricostruire degli schemi di lavoro che siano rispondenti a delle esigenze didattiche spesso molto stringenti in termini di tempistica, standardizzazione, ecc. Un’altra barriera è rappresentata dalle competenze specifiche degli insegnanti che non necessariamente hanno costruito dei saperi utili per questo tipo d’insegnamento (Elias & Harrett, 2006). L’insegnamento dell’educazione emotiva a scuola richiede operazioni complesse e un ripensamento dell’organizzazione dell’intera didattica. Lo sviluppo di conoscenze e competenze legate alle emozioni è un punto nevralgico nel processo di crescita e di formazione dell’individuo che richiede tempi di maturazione lunghi e che esula da un apprendimento formale e mnemonico, facilmente circoscrivibile all’interno di una programmazione schematica. È un tipo d’insegnamento che può avvenire in maniera informale, personalizzata, non programmabile a-priori, in continuità con la vita di comunità, in sistemi di valutazione non standardizzati: tutti aspetti che mal si conciliano all’interno di un sistema scolastico che invece tende a standardizzare, generalizzare, programmare, ecc. Anche in questo caso, partendo da presupposti diversi, il ragionamento sembra portare a una constatazione molto spesso richiamata in questi ultimi anni di incertezza sul futuro dell’educazione: occorre ripensare il modo di fare e di intendere la scuola.

Riferimenti bibliografici

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