La fiducia e il bisogno di essere visti

La fiducia svolge un ruolo centrale per la sopravvivenza e nel rapporto con noi stessi, con gli altri e con la vita.

Tutti sanno quanto la fiducia sia importante nelle relazioni. Quanto sia indispensabile per aprirsi e incontrare l’altro in un rapporto autentico e intimo. Ma da cosa dipende la fiducia? In base a cosa scegliamo di fidarci di qualcuno? In base al tono della voce, perché ha uno sguardo accogliente, ci ascolta con attenzione. Sembra capirci. Secondo Fonagy, la fiducia si stabilisce quando ci sentiamo visti e compresi e possiamo quindi sperimentare una relazione protetta. Si tratta di un’esperienza fondamentale innanzitutto nell’infanzia, per la formazione del sé e lo sviluppo della personalità.

La fiducia epistemica primaria

Il bambino viene al mondo con il bisogno di essere accudito e riconosciuto. E, pertanto, con il bisogno di affidarsi alle figure genitoriali da cui dipende la sua sopravvivenza. Se i suoi processi regolativi ed emotivi sono adeguatamente accolti e sostenuti, potrà interiorizzare quella base sicura che lo accompagnerà per tutta la vita nel fare esperienza di sé, degli altri e del mondo. Questa forma primaria di fiducia, che Fonagy definisce fiducia epistemica, si costruisce grazie alla mentalizzazione. Ovvero, alla capacità di riconoscere l’altro nella sua individualità, di rappresentare gli stati mentali propri e altrui, di dare senso e attribuire intenzioni al comportamento.

Il senso di sé si struttura dunque a partire dall’esperienza di essere nella mente dell’altro. Del sentire “tenuti insieme i propri vari aspetti”, usando le parole di Winnicott. Quando il bambino non è adeguatamente mentalizzato ma, al contrario, svalutato nelle sue caratteristiche e nei suoi bisogni, inizierà a diffidare dell’ambiente in cui vive. E, al posto della fiducia, svilupperà una sfiducia di base che comprometterà sia l’autoregolazione sia lo sviluppo della propria soggettività e della vita relazionale futura.

La mancanza di fiducia sul piano dei pensieri

Le alterazioni dei processi di mentalizzazione hanno ricadute sui vari livelli di funzionamento della persona con esiti anche gravi per la salute.

La mancanza di fiducia comporta una difficoltà a comprendere e tollerare l’ambiguità delle relazioni umane. Induce a diffidare dell’altro e a credere che le sue intenzioni non siano quelle che dichiara. Si può instaurare un pensiero di tipo inside out (quanto sperimentato all’interno equivale all’esterno: “siccome lo sento, è così”) o quick fix (in cerca di rassicurazione immediata). Vi può essere un continuo oscillare tra i poli opposti della certezza e dell’incertezza, con la ipermentalizzazione (un eccesso di certezza rispetto a ciò che si pensa e a ciò che gli altri pensano) e l’ipomentalizzazione (la sensazione di non capire gli stati mentali altrui o il non esserne interessati).

L’evitamento della realtà e la dipendenza

I pensieri, i sentimenti, le intenzioni e i comportamenti dell’altro sono interpretati sulla base di aspetti propri, mediante proiezioni volte a confermare l’idea di partenza (“non posso fidarmi”). L’altro non può essere visto. E la realtà viene evitata e vissuta come una riproposizione degli schemi del passato. Quando internamente non si è costruita una buona capacità di autoriconoscimento, la persona tende a conservare la posizione infantile dipendente e ad investire gli altri di una funzione genitoriale, deresponsabilizzandosi nelle sue capacità adulte.

La mancanza di fiducia sul piano delle emozioni e del comportamento

Talvolta, il vissuto di sospetto e diffidenza può estendersi fino a permeare l’intera esperienza. Può diventare un atteggiamento esistenziale e sfociare in pensieri e angosce di tipo persecutorio, con una rappresentazione del mondo come luogo ostile, umiliante e pericoloso. Sul piano comportamentale, possono manifestarsi esigenze di controllo o anche azioni impulsive, spesso distruttive e autolesive, come strategia difensiva e tentativo di trovare una rassicurazione interna. Oppure, vi può essere un ritiro nel vittimismo fino all’isolamento estremo.

La fiducia in psicoterapia

La fiducia è l’elemento centrale di ogni psicoterapia. Il noto “verdetto del dodo”, metafora utilizzata da Rosenzweig nel 1936, in riferimento al problema dei cosiddetti fattori comuni o aspecifici di tutte le psicoterapie, e che ha suscitato non poche polemiche, sostiene che tutte le terapie sono efficaci per tutti i disturbi. In “Alice nel paese delle meraviglie”, Dodo è un uccello che indice una corsa al cui termine dichiara: “Tutti hanno vinto e ognuno merita un premio”. Sebbene si possa discutere sull’esistenza di effettive differenze in termini di efficacia tra i vari approcci e tipi di interventi possibili, la fiducia che si crea nella stanza di psicoterapia è senza dubbio il perno imprescindibile del cambiamento. Al di là delle teorie di riferimento, al di là degli strumenti e delle tecniche.

La cura parte dal sentirsi visti ed accolti per come si è. Winnicott, infatti, sostiene che “si va dallo psicologo, prima che per conoscersi, per essere conosciuti da un’altra persona”. Per fare esperienza di quell’essere “tenuti a mente” indispensabile per la formazione di un sé coeso. Lo sguardo, la voce, il corpo, il silenzio e le parole con cui il terapeuta accoglie e riconosce ogni propria parte, senza giudizio, sostengono l’esperienza di sé e il contatto con la realtà.