La Dolcezza della Morte: Un Viaggio tra Riti Arcaici e Miti di Rigenerazione

ll tempo non si regala né si conserva in banche del tempo, il tempo lo viviamo ogni giorno ed è la cosa più preziosa.

Forse questa trattativa è un retaggio genetico di quando di notte, dividevamo talvolta la grotte con l’ Ursus spelaeus e poi di giorno dovevamo vedercela con quel frutto velenoso, con la natura con cui imparavamo a trattare per garantirci la vita e le nostre care riserve di cibo.

De Martino nel saggio “Morte e pianto rituale”dedica un densissimo capitolo al legame tra raccolto, passione vegetale e pianto rituale. Mietitura, vendemmia, raccolta dei frutti e dei cereali, sono tutte attività agricole che instaurano un ciclo di morte e rinascita, che legano una specie vegetale ad un destino culturale.

Tuttavia, rimane sempre uno scarto tra controllo umano e ambiente naturale, un’area di rischio che mette costantemente in pericolo la comunità umana.

In tutte le culture arcaiche la morte è un processo attivo, non passivo. E’ la fine di un ciclo. Attraverso il mito della rigenerazione, i contesti cerealicoli impararono a contenere l’esperienza della morte vegetale, in cui l’ultima mietitura faceva paura perché poteva essere l’ultima in assoluto.

Il lamento funebre si configura prima di tutto come rito agrario, ed è solo in seguito trasposto alla morte umana.

Così il rituale praticato dalle prefiche, le lamentatrici, di staccare i capelli al defunto, era legato simbolicamente alla mietitura. Il taglio del grano e dei capelli permette il ritorno, così anche i banchetti che in alcune tradizioni funebri avvengono, rappresentano il mito della rinascita e di quanto con la morte si dia inizio alla nuova vita.

Mi rifaccio ad una frase rivoluzionaria a mio avviso del dott. Tamino : “Imparare a cogliere la dolcezza della morte”.

Ammettere che noi della morte non sappiamo nulla, ma che per poterla pensare, dobbiamo anche attivare una morte immaginativa, dolce, che non nega quella reale, ma la rende “mangiabile”.

Come arteterapeuta Poliscreativa condivido il concetto che noi esseri umani oscilliamo costantemente tra l’idea di essere mortali e quella di essere immortali.

Bisogna cercare di dialogare tra queste parti, per evitare che si crei un’unica polarità che ingolfi i pensieri e il vivere, imparando a contattare la dolcezza della morte, per apprezzare anche la vita.

Ne “Il settimo sigillo” Ingmar Bergman immagina una partita a scacchi con la morte.

Imparare a pensare dolcemente ai nostri morti e alla morte, così facendo depotenziamo il perturbante che questi argomentoni portano con sé.

Come abbiamo sottolineato inizialmente, l’essere umano è storicamente legato alla morte e alla resurrezione vegetale che ha colpito l’uomo anche per la sua stretta dipendenza dallo stesso. Se dunque lo “spirito arboreo” doveva morire per poi risorgere, è nella buona, morte che si assicurava la rigenerazione.