Il sonno inquieto e la funzione terapeutica materna

Costantino Nivola, Letto, 1961,terracotta

Come ben sappiamo, non sempre il sonno dei nostri bambini è placido, così come quello degli adulti, ma anche quello dei terapeuti e di tutti i professionisti che lavorano nell’ambito della cura.

Se ci riflettiamo, la relazione terapeutica è un tipo di relazione che pesca la sua energia anche nel materno.

Mi spiego meglio: con materno non intendo “la madre”, ma quella funzione materna che accomuna le donne, gli uomini e la comunità che si prende cura del cucciolo. Quella funzione ritmica di passaggio dei saperi, guaritrice, calmante, corporea e condivisa, ma anche sanamente indifferente.

In psicoterapia come ho accennato nell’articolo “La paura della relazione corporea nello spazio della cura”, un accudimento corporeo è possibile anche senza toccarsi, grazie soprattutto ai neuroni specchio.

Il terapeuta si trova a sperimentare la difficoltà del sonno inquieto, del pianto disperato e nervoso proprio e altrui. Spesso, nell’ambito della cura, ci si trova davanti alla difficoltà di calmare e cullare “solo” con la voce, con il proprio canto, voce che è corpo.

Ho imparato dalla mia esperienza come arteterapeuta e psicoterapeuta che quel canto ritmico non è mai proprio, nel senso di solitario, ma condiviso con tutti quelli che si sono presi cura di me.
Un canto possibile quindi perché condiviso, ma nello stesso tempo personale e contestuale.

In questa relazione psicoterapeutica,vista da un’arteterapeuta formata alla scuola Poliscreativa, la cura evidentemente non è solitaria, ma sempre relazionale e comunitaria.

Come ho imparato nella mia formazione come arteterapeuta Poliscreativa mi aiuta aavere una modalità di pensiero “libera” perchè in continuità con il passato, però anche legata ai fili dell’oggi e a quelli del domani, come in una spirale, in cui non si torna mai uguali al punto di partenza, sempre con una carezza, un passo, un appiglio in più.

Credo che tutti abbiamo timore di piangere, ma ancora di più temiamo il pianto di chi a noi si affida.

È qui che nel lavoro di cura entra in gioco la relazione corporea, una relazione che non è seduttiva, ma che tranquillizza tutti perché pregenitale, una dimensionecalmante a cui tutti apparteniamo e a cui è possibile accedere con ritmicità graduale.

Sperimentare così un’ oscillazione continua tra aspetti fusionali ed aspetti d’individualizzazione.

Un po’ come lasciarsi cullare dal mare, navigando con un’imbarcazione che ci dà sicurezza, un equipaggio di cui tendenzialmente ci piace la compagnia e a cui possiamo passare il timone di tanto in tanto, insieme, con la possibilità di raggiungere quando lo si sente più opportuno, un porto sicuro.